La Misteriosa Convergenza. Uomini e donne che hanno penetrato la modernità incontrando il vero Dio
IL DIALOGO PER LA VITA
Papa Paolo VI (in latino: Paulus PP. VI, nato Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini; Concesio, 26 settembre 1897 – Castel Gandolfo, 6 agosto 1978) è stato il 262º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, primate d’Italia e 4º sovrano dello Stato della Città del Vaticano a partire dal 21 giugno 1963 fino alla morte. Venerabile dal 20 dicembre 2012, dopo che papa Benedetto XVI ne aveva riconosciuto le virtù eroiche, è stato beatificato il 19 ottobre 2014[1] e proclamato santo il 14 ottobre 2018 da papa Francesco[2].
ITINERARIO NELLA LUCE
John Henry Newman (Londra, 21 febbraio 1801 – Edgbaston, 11 agosto 1890) è stato un santo, cardinale, teologo filosofo inglese. Già presbitero anglicano, visse con disagio la fase di secolarismo in cui si trovava la Chiesa d’Inghilterra nel XIX secolo: entrato a far parte del Movimento di Oxford, ne divenne uno degli animatori. Convertitosi al cattolicesimo, fu di nuovo ordinato prete nella Chiesa cattolica, impiantando sul suolo britannico la società di vita apostolica degli Oratoriani, di cui aveva deciso di essere membro.[1] Elevato al cardinalato nel 1879 da Leone XIII, morì nel 1890. Beatificato il 19 settembre 2010 da papa Benedetto XVI, è stato proclamato santo il 13 ottobre 2019 da papa Francesco.
LA RAGIONE SALVATA
Edith Stein (in religione Teresa Benedetta della Croce; Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942) è stata una monaca cristiana, filosofa e mistica tedesca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze, vittima della Shoah. Di origine ebraica, si convertì al cattolicesimo dopo un periodo di ateismo che durava dall’adolescenza. Venne arrestata nei Paesi Bassi dai nazisti e rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove, insieme alla sorella Rosa, terziaria carmelitana scalza, nel 1942 venne trucidata. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II la proclamò santa e l’anno successivo la dichiarò patrona d’Europa.
L'ANGELO DELLA INTELLIGENZA
Jacques Maritain (Parigi, 18 novembre 1882 – Tolosa, 28 aprile 1973) è stato un filosofo francese, allievo di Henri Bergson, convertitosi al cattolicesimo.
Autore di più di 60 opere, è generalmente considerato come uno dei massimi esponenti del neotomismo nei primi decenni del XX secolo e uno tra i più grandi pensatori cattolici del secolo. Fu anche il filosofo che più di ogni altro avvicinò gli intellettuali cattolici alla democrazia allontanandoli da posizioni più tradizionaliste. Papa Paolo VI lo considerò il proprio ispiratore. A conferma di ciò, alla chiusura del Concilio Vaticano II fu a Maritain, quale rappresentante degli intellettuali, che Paolo VI consegnò simbolicamente il proprio messaggio agli uomini di scienza e del pensiero
DENTRO LA PAROLA
CARLO Maria Martini (Torino, 15 febbraio 1927 – Gallarate, 31 agosto2012) è stato un cardinale, arcivescovo cattolico, teologo, biblista, docente e rettore italiano. Esegeta oltre che biblista, è stato arcivescovodi Milano dal 1979 al 2002. Oltre ad essere stato un uomo di grande cultura teologica fu anche uomo del dialogo tra le religioni, a cominciare dall’ebraismo, i cui fedeli amava definire “fratelli maggiori”. Fu soprannominato “cardinale del dialogo“.[1]
Biografia Jasques Maritain
Nasce a Parigi in una famiglia protestante, il padre Paul Maritain è avvocato, la madre Geneviève Favre è la figlia del politico Jules Favre. Frequenta il liceo Henri-IV e studia poi chimica, biologia e fisica alla Sorbona, dove si laurea dapprima in filosofia e poi in scienze naturali. In questi anni universitari conosce Raïssa Oumançoff, immigrata russa di origine ebraica, che sposerà nel 1904 e che lo seguirà appassionatamente nella sua ricerca della verità. Lo scientismo, allora in voga alla Sorbona, lo delude rapidamente; lo ritiene incapace di rispondere alle fondamentali questioni esistenziali. Su consiglio di Charles Péguy, segue con la futura moglie i corsi di Henri Bergson al Collège de France. Bergson comunica ai Maritain, oltre alla critica dello scientismo, pure il senso dell'assoluto. Anche grazie all'influenza di Léon Bloy i Maritain si convertono nel 1906 al cattolicesimo. I coniugi Maritain si trasferiscono nel 1907 a Heidelberg, dove Jacques Maritain studia biologia sotto la direzione di Hans Driesch, la cui teoria neovitalista lo attira in quanto apparentata alle concezioni di Bergson. Durante una lunga convalescenza della moglie, il consigliere spirituale dei Maritain, il domenicano Humbert Clérissac, le fa scoprire l'opera di San Tommaso d'Aquino. L'entusiasmo di Raissa contagia il marito, che vede in San Tommaso la conferma di molte sue idee. Dal “Dottore angelico” Maritain passa ad Aristotele, di cui San Tommaso aveva cristianizzato il pensiero, e alla neoscolastica. Nel 1912 Jacques Maritain inizia la propria attività di docente, prima al Collegio Stanislao, poi all'Istituto cattolico di Parigi e al piccolo seminariodi Versailles. Nel 1920 partecipa con Henri Massis alla fondazione della Revue Universelle. Sotto l'influenza di Clérissac si avvicina ad ambienti vicini alla destra cattolica dell'Action Française. Quando nel 1926 il Vaticano metterà in guardia dall'operato dell'Action Française, dopo un periodo di riflessione, Maritain difenderà tali interventi con la pubblicazione di Primauté du spirituel. Negli anni successivi egli approfondisce la propria riflessione politico – sociale che nel 1936 esprime in Humanisme intégral e si avvicina ad ambienti della democrazia cristiana francese. Nel 1933 è nominato professore al Pontificio Istituto di Studi Medioevali di Toronto. Egli insegnò pure alla Columbia University e alle Università di Chicago e Princeton. La Seconda guerra mondiale lo blocca nell'America del Nord da dove si oppone strenuamente al regime filonazista di Vichy, fatto che lo mette fra i ricercati dalla polizia tedesca (partecipa attivamente alla resistenza con radiomessaggi e fogli distribuiti clandestinamente in territorio francese)[1]. Con la fine della guerra il generale De Gaulle lo propone come ambasciatore della Repubblica Francese presso la Santa Sede. Dopo un rifiuto inziziale, in seguito accetterà l'incarico che ricopre dal 1945 al 1948. Durante questa esperienza farà amicizia con mons. Montini. Dopo tale esperienza ritorna a New York alla Princeton University, di cui diventerà professore emerito nel 1956. Nel 1960 Raissa muore a Parigi e Jacques Maritain si ritira a Tolosa presso la Comunità religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù, ordine creato nel 1933, sul quale Maritain da sempre esercitava un'influenza. Fra il '62 e il '65, presenzia al Concilio Vaticano II, su invito di Momti.[2] Nel 1971egli stesso diventerà un piccolo fratello. Jacques Maritain è sepolto con la moglie a Kolbsheim in Alsazia nel dipartimento francese del Basso Reno.
Biografia Edith Stein
Infanzia e primi studi Edith Stein nacque a Breslavia, all'epoca ancora città tedesca, ma anche di popolazione francese, il 12 ottobre 1891 da Sigfrido e Augusta Courant, entrambi ebrei di origine. Possedevano un'attività commerciale di legname, prima a Lubliniec e poi a Breslavia, dove appunto nacque Edith, ultima dei sette figli della famiglia Stein-Courant[1], la quale nel luglio del 1893 si vide improvvisamente privata del capofamiglia, morto per insolazione, come narra la stessa Edith. Fu Augusta dunque a sobbarcarsi l'impegno di sfamare la numerosa prole prendendo personalmente le redini dell'azienda[2]. Ella divenne una figura molto cara a Edith, che nelle sue memorie familiari la ricorda spesso come una donna instancabile e coriacea, forte di carattere e parecchio abile negli affari[3]. Dal 12 ottobre 1897 la piccola Edith cominciò la scuola, distinguendosi presto come bambina dall'intelligenza acuta e precoce. La sorella Erna la definì “straordinariamente pronta d'ingegno”[4]. Concluse le elementari, proseguì con i corsi ginnasiali. Fra i 15 e i 16 anni prese la ferma decisione di non frequentare più la scuola preferendo trasferirsi ad Amburgo presso la sorella Elsa, dove rimase per circa un anno, trascorso principalmente nell'assidua lettura di libri di letteratura antica e moderna nonché di filosofia, la quale già in quel periodo cominciava ad attirare le sue attenzioni e il cui studio presto l'avrebbe condotta ad un dichiarato ateismo. Ricredutasi riguardo al proprio percorso scolastico, decise di intraprendere un esame da privatista per recuperare il tempo perduto e riprendere così le compagne all'ultimo anno scolastico della maturità, su consiglio del cugino Richard Courant. Obiettivo che raggiunse pienamente. Il 3 marzo 1911 Edith sostenne e superò anche l'esame finale di maturità. Proseguì quindi gli studi presso l'università di Breslavia, ritrovandosi spesso ad essere l'unica ragazza in una classe composta esclusivamente di maschi[5]. I professori notarono ben presto le sue straordinarie doti intellettuali; nonostante ciò l'ambiente di Breslavia risultò ben presto inadatto alla sua sete di conoscenza. Attratta dalle teorie di Edmund Husserl, di cui aveva già letto Ricerche logiche, decise di intraprendere il percorso di studi presso l'università di Gottinga dove il celebre fenomenologo teneva le sue lezioni. Giunta a Gottinga nell'aprile del 1913, conobbe e si guadagnò la stima di alcuni fra i più famosi filosofi del periodo, da Adolf Reinach a Max Scheler allo stesso Husserl, il quale le suggerì di fare con lui la tesi di laurea: tema, l'empatia. Fu un lavoro estenuante per il quale spese tempo ed energie considerevoli. Il 30 luglio 1914 le lezioni furono sospese a causa di quella che sarebbe presto divenuta la prima guerra mondiale ed Edith, tornata a Breslavia, chiese all'ospedale di Tutti i santi d'essere assunta come infermiera volontaria ed essere mandata ad assistere in prima linea. Fiaccata però da una terribile influenza, dovette rimanere chiusa in casa dove, riveduti i propri appunti universitari, poté sostenere l'ultimo esame in presenza di Husserl nel gennaio 1915 dopo la riapertura delle università: il risultato fu maxima cum laude. Tornata nuovamente al volontariato, raggiunse nell'aprile del 1915 Mahrisch-Weisskirchen nella zona dei Carpazi, dove la guerra imperversava con violenza, per occuparsi dei malati di tifo[6]. In patria riprese i contatti con Husserl e cominciò a guadagnarsi da vivere facendo la supplente di lingue classiche a Breslavia, pur continuando la sua tesi di dottorato che, conclusa, raggiunse i tre tomi. E proprio a Friburgo, dove aveva raggiunto il filosofo, difese eccellentemente la sua tesi con il voto più alto. Fu allora che propose ad Husserl di divenire sua assistente: aveva solo venticinque anni quando si trasferì a Friburgo per porsi al servizio del fenomenologo. Quale sua fedele interprete, preparò per la stampa La coscienza del tempo, raccogliendo e rendendo leggibili gli appunti del maestro. Ma il suo vero desiderio era quello di realizzare una propria opera: “L'attività di assistente – scrisse – peraltro mi occupa tanto che non mi è possibile dedicarmi a un lavoro personale intenso e indisturbato”[7]. Non trascorse molto tempo che l'impegno di Edith quale assistente di Husserl, seppur onorifico, non le fu più sostenibile. Fu così che nel febbraio 1918 rinunciò all'incarico per dedicarsi alla propria carriera lavorativa e filosofica. L'esperienza empatica Per accorgersi dell'errore è necessaria l'apertura empatica all'altro: attraverso un più profondo atto di empatia è possibile comprendere qualcosa che prima era sfuggito a causa delle attese o dei preconcetti. La Stein divide il processo empatico in tre fasi: • emersione del vissuto: lettura di un'espressione emotiva sul volto di qualcuno (riprendendo la tesi di Max Scheler sulla percezione diretta dell'espressività altrui esposta nella prima edizione del Sympathiebuch del 1913); • esplicitazione riempiente: l'oggetto del vissuto è lo stato d'animo dell'altro con il quale ci si immedesima, accogliendolo quindi dentro di sé; • oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato: l'attenzione è rivolta allo stato d'animo dell'altro, colto come vissuto altrui tramite una distanza arricchita dalla consapevolezza dello stato precedente. Perché ci sia davvero uno stato empatico devo "far posto" : dopo essersi immedesimati è necessario compiere un passo indietro e guardare quello stato d'animo come un oggetto. La conversione Edith Stein diventò membro della facoltà a Friburgo. In questi anni si dedicò anche all'attività politico-sociale, impegnandosi nel Partito Democratico Tedesco (DDP) a favore del diritto di voto alle donne e al ruolo nella società della donna che lavora[8]. Nonostante avesse già avuto contatti con il cattolicesimo, rimase sconvolta da una donna "qualsiasi"[9] che con i sacchetti della spesa era entrata in una chiesa per pregare; questo avvenimento segnò l'inizio del suo cammino di avvicinamento alla fede cattolica (aveva compreso che Dio lo si può pregare in qualsiasi momento, avendo con Lui un rapporto personale) ma fu solo dopo aver letto l'autobiografia della mistica santa Teresa d'Avila, durante una vacanza nel 1921, che abbandonò formalmente l'ateismo e si convertì. Battezzata il 1º gennaio 1922 a Bad Bergzabern, andò ad insegnare presso due scuole domenicane per ragazze a Spira (1923-1931). Durante questo periodo, già indirizzata alla vita di clausura, si accostò alla filosofia tomistica, tradusse il De veritate di san Tommaso d'Aquino in tedesco. La sua vita fu scandita da preghiera, insegnamento, vita comune con le allieve e studio personale. Nel 1931 divenne lettrice all'Istituto di pedagogia scientifica a Münster, ma le leggi razziali del governo nazista la obbligarono a dimettersi nel 1933. L'opposizione al nazismo Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l'insediamento di Hitler al cancellierato, Edith Stein scrisse a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di stato - il cardinale Pacelli, già nunzio apostolico in Germania e futuro papa Pio XII - di non tacere più e di denunciare le prime persecuzioni contro gli ebrei.[10] L'esperienza del Carmelo Realizzando un desiderio che da tempo portava nel cuore, Edith Stein entrò nel monastero carmelitano a Colonia nel 1934 e prese il nome di Teresa Benedetta della Croce. Lì scrisse il suo libro metafisico Endliches und ewiges Sein ("Essere finito ed Essere eterno") con l'obiettivo di conciliare le filosofie di Tommaso d'Aquino e di Husserl. Per proteggerla dalla minaccia nazista, il suo ordine la trasferì al convento carmelitano di Echt nei Paesi Bassi. Lì scrisse Kreuzeswissenschaft. Studie über Johannes vom Kreuz ("La scienza della croce. Studio su Giovanni della Croce"). Vittima della Shoah Purtroppo Edith non era al sicuro neanche nei Paesi Bassi: la conferenza dei vescovi olandesi il 20 luglio 1942 fece leggere in tutte le chiese del paese un proclama contro il razzismo nazista. In risposta, il 26 luglio Adolf Hitler ordinò l'arresto degli ebrei convertiti (che fino a quel momento erano stati risparmiati). Edith e sua sorella Rosa, pure lei convertita, vennero catturate e internate nel campo di transito di Westerbork prima di essere trasportate al campo di concentramento di Auschwitz, dove furono uccise nelle camere a gas il 9 agosto 1942; entrambe vennero poi cremate. L'elevazione agli altari Con la sua beatificazione nel Duomo di Colonia da parte di papa Giovanni Paolo II, il 1º maggio del 1987, la Chiesa cattolica volle onorare, per esprimerlo con le parole dello stesso pontefice, "una figlia d'Israele, che durante le persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede ed amore al Signore Crocifisso, Gesù Cristo, quale cattolica ed al suo popolo quale ebrea". La decisa volontà di Giovanni Paolo II - che in gioventù era appartenuto a quella componente del cattolicesimo polacco che aveva ereditato dalla dominazione austriaca di Cracovia le tradizioni di tolleranza asburgica verso la minoranza ebraica, e che indicò sempre lo sterminio antisemita come un abisso dell'umanità - sormontò anche l'ostacolo canonico a dichiararla santa, cioè la ricerca di un miracolo compiuto in vita ovvero la dichiarazione del martirio per la fede. Con l'affermazione che la persecuzione subita nel campo di sterminio - che portò alla sua morte - era patita per la sua testimonianza della fede (affermazione dalle conseguenze teoriche assai ampie, sulla natura anticristiana del nazismo e sul fatto che si può affermare la fede cattolica anche rifiutando di sottrarsi ad una persecuzione razziale), Edith Stein fu canonizzata dallo stesso Giovanni Paolo II l'11 ottobre 1998. Il 1º ottobre 1999 il papa la nominò anche "compatrona" d'Europa (assieme alle sante Caterina da Siena e Brigida di Svezia) affermando che: «Teresa Benedetta della Croce ... non solo trascorse la propria esistenza in diversi paesi d'Europa, ma con tutta la sua vita di pensatrice, di mistica, di martire, gettò come un ponte tra le sue radici ebraiche e l'adesione a Cristo, muovendosi con sicuro intuito nel dialogo col pensiero filosofico contemporaneo e, infine, gridando col martirio le ragioni di Dio e dell'uomo nell'immane vergogna della "shoah". Ella è divenuta così l'espressione di un pellegrinaggio umano, culturale e religioso, che incarna il nucleo profondo della tragedia e delle speranze del Continente europeo».[11]
Biografia Paolo VI
Infanzia e formazione Giovanni Battista Montini nacque il 26 settembre 1897 a Concesio, un piccolo paese all'imbocco della Val Trompia, a nord di Brescia, dove la famiglia Montini, di estrazione borghese, aveva una casa per le ferie estive. I genitori, l'avvocato Giorgio Montini e Giuditta Alghisi (appartenente alla piccola nobiltà rurale locale), si erano sposati nel 1895 ed ebbero tre figli: Lodovico, nato nel 1896, che divenne avvocato, deputato e senatore della Repubblica, morto nel 1990, Giovanni Battista e, nel 1900, Francesco, medico, morto improvvisamente nel 1971. Il padre, al momento della nascita del futuro pontefice, dirigeva il quotidiano cattolico Il Cittadino di Brescia, e fu poi nominato deputato per tre legislature nel Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo; Giorgio Montini e Giuditta Alghisi morirono entrambi nel 1943 a pochi mesi di distanza. Venne battezzato il 30 settembre 1897, medesimo giorno in cui morì Teresa di Lisieux [3], nella chiesa parrocchiale di Concesio (dove ancora oggi è conservato il fonte battesimale originario), coi nomi di Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini. Nel 1903 venne iscritto come studente esterno (a causa della cagionevole salute) nel collegio "Cesare Arici" di Brescia, retto dai padri Gesuiti. In questa medesima scuola, frequentò fino al liceo classico, partecipando attivamente ai gruppi giovanili degli oratoriani di Santa Maria della Pace. Nel 1907 compì il suo primo viaggio con la famiglia a Roma, in occasione di un'udienza privata di papa Pio X. Nel giugno dello stesso anno gli vennero impartiti i sacramenti della prima comunione e della cresima. Nel 1916 ottenne la licenza presso il liceo statale "Arnaldo da Brescia" e nell'ottobre dello stesso anno entrò, sempre come studente esterno, nel seminario della sua città. Dal 1918 collaborò con il periodico studentesco La Fionda, pubblicando numerosi articoli di notevole spessore. Scrisse, ad esempio, nei primi di novembre del 1918: «Guai a chi abusa della vita. Quando la creatrice mano di Dio delineava in un ordine meraviglioso i confini della vita, poneva altresì custode di questi confini la morte, vindice di quanti li avrebbero varcati in cerca di vita più ampia, di felicità maggiore.» Nel 1919 entrò nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI), che raccoglieva i gruppi studenteschi universitari cattolici. Ordinazione sacerdotale Il 29 maggio 1920 ricevette l'ordinazione sacerdotale nella cattedrale di Brescia dal vescovo Giacinto Gaggia; il giorno successivo celebrò la sua prima messa nel Santuario di Santa Maria delle Grazie di Brescia, concludendo i suoi studi in quello stesso anno a Milano con il dottorato in diritto canonico. Nel novembre dello stesso anno si trasferì a Roma dove si iscrisse ai corsi di Diritto civile e di Diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana e a quelli di Lettere e filosofia all'Università statale oltre, su richiesta di Giuseppe Pizzardo, ad entrare nell'Accademia dei Nobili Ecclesiastici. Nel 1923, sempre su consiglio di Pizzardo, viene avviato agli studi diplomatici presso la Pontificia accademia ecclesiastica, collaborando tra gli altri con Francesco Borgongini Duca, Alfredo Ottaviani, Carlo Grano, Domenico Tardini e Francis Spellman. Iniziò così la sua collaborazione con la Segreteria di Stato, per volere di papa Pio XI, dovette perciò rinunciare all'esperienza parrocchiale che egli avrebbe voluto perseguire e che non sperimentò mai nella sua vita. Fu inviato a Varsavia per cinque mesi (giugno-ottobre 1923) come addetto alla nunziatura apostolica. Continuò a finanziare anche a distanza le opere della Biblioteca Morcelliana di Brescia, focalizzata nella promozione di una "cultura cristiana ispirata".[4] Esperienza diplomatica in Polonia L'unica esperienza di diplomazia estera di Montini fu al seguito dell'arcivescovo Lorenzo Lauri alla nunziatura apostolica di Varsavia, in Polonia, nel 1923. Come Achille Ratti prima di lui, Montini dovette confrontarsi con il problema del nazionalismo locale: "Questa forma di nazionalismo tratta gli stranieri come nemici, in particolari quelli con cui lo stato ha frontiere comuni, quasi che uno cerchi l'espansione del proprio paese a spese degli immediati vicini. Le persone crescono con un sentimento in tal guisa. La pace diventa un compromesso di transizione tra le guerre."[5] Quando venne richiamato a Roma fu lieto di ritornare in patria, dicendo "questo conclude un episodio della mia vita, utile certo, ma non una delle esperienze più felici che io abbia mai provato".[6] Quando da papa era intenzionato a fare ritorno in Polonia nell'ambito di un pellegrinaggio mariano, tale permesso gli venne negato dal governo comunista dell'epoca, richiesta che non poté essere invece negata al nativo Giovanni Paolo II qualche anno dopo. Rientrato in Italia, nel 1924 conseguì tre lauree: in filosofia, diritto canonico e diritto civile. Incarico nella FUCI Nell'ottobre 1925 fu nominato assistente ecclesiastico nazionale della FUCI. Collaborò a fianco del presidente nazionale Igino Righetti, che era stato nominato nello stesso anno, e i due si trovarono ad agire in un iniziale clima di diffidenza, rasserenatosi solo col tempo, tra studenti che vedevano con sospetto la nuova dirigenza imposta forzosamente dalle gerarchie[7]. Montini sperimentò ben presto le resistenze opposte da alcuni ambienti della chiesa (come i Gesuiti) che resero difficile il suo compito e lo portarono, nel giro di meno di otto anni, alle dimissioni. Tali resistenze originavano da divisioni ecclesiastiche non solo sul comportamenti da tenere nei confronti del fascismo, ma anche sugli atteggiamenti culturali e le scelte educative[7]. Montini profuse un attivo impegno nella FUCI con un'azione di profonda riorganizzazione della Federazione. Divenne così il bersaglio privilegiato delle accuse e denunce degli ambienti ecclesiastici ostili. La situazione degenerò al punto tale da convincerlo, a malincuore, a rinunciare all'incarico. Le dimissioni, presentate in febbraio, furono accettate e formalizzate il mese successivo[7]. Motivò la sua scelta con la difficoltà di conciliare quel ruolo con gli impegni, in effetti sempre crescenti, in Segreteria di stato[7]. Nel 1931, durante il suo lavoro nella FUCI, Montini aveva avuto l'incarico di visitare celermente Germania e Svizzera, per organizzare la diffusione dell'enciclica Non abbiamo bisogno, nella quale Pio XI condannava lo scioglimento delle organizzazioni cattoliche da parte del regime fascista. Nel 1933 ebbe termine il suo impegno di essere assistente ecclesiastico nazionale della FUCI[7]. Sostituto alla Segreteria di Stato, poi Pro-segretario Il 13 dicembre 1937 Montini fu nominato sostituto della Segreteria di Stato; iniziò a lavorare strettamente al fianco del cardinale segretario di stato Eugenio Pacelli. Il 10 febbraio 1939, per un improvviso attacco cardiaco, Pio XI morì[8]. Alle soglie della seconda guerra mondiale, Eugenio Pacellivenne eletto pontefice con il nome di Pio XII. Poche settimane dopo, Montini collaborò alla stesura del radiomessaggio di papa Pacelli del 24 agosto per scongiurare lo scoppio della guerra, ormai imminente, in cui furono pronunciate le famose parole: «Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra» Durante tutto il periodo bellico svolse un'intensa attività nell'Ufficio informazioni del Vaticano, occupandosi dello scambio di informazioni sui prigionieri di guerra sia civili che militari. In questo periodo fu l'interlocutore principale delle autonome iniziative intentate in tutta segretezza dalla principessa Maria José di Savoia, nuora del re Vittorio Emanuele III, per stringere contatti con gli Americani ai fini di una pace separata. Tali iniziative, peraltro, non ebbero esito[9]. Il 19 luglio 1943 accompagnò Pio XII nella visita al quartiere San Lorenzo colpito dai bombardamenti alleati. Va ricordato che terminata la guerra vi furono violentissime polemiche relative al ruolo della Chiesa, e in particolare di Pio XII, che fu accusato di aver mantenuto verso il nazismo un atteggiamento privo di prese di posizione, anzi sospetto di collaborazionismo. Montini fu investito solo relativamente dalla tempesta, nonostante la sua vicinanza al Papa, tenuto anche conto che, nel periodo dell'occupazione tedesca di Roma era ancora vivo il Segretario di Stato Luigi Maglione, al quale erano affidate le relazioni con la diplomazia germanica. Peraltro, Montini si occupò più volte e a vario titolo dell'assistenza che la Chiesa forniva ai rifugiati e agli ebrei, ai quali distribuì ripetute provvidenze economiche a nome di Pio XII. In tale periodo la Chiesa riuscì di nascosto a salvare oltre ai 4.000 ebrei romani dalle deportazioni, azione che, secondo alcuni studiosi, non avrebbe potuto compiere se si fosse schierata apertamente contro gli occupanti tedeschi. Dopo la liberazione di Roma, nell'estate del 1944 Montini, alla morte del cardinale Maglione, assunse la carica di Pro-segretario di Stato, insieme a Domenico Tardini (futuro segretario di Stato di Giovanni XXIII), e si trovò a lavorare ancor più a stretto contatto con Pio XII. Al termine della seconda guerra mondiale, Montini fu in piena attività per salvaguardare il mondo cattolico nello scontro con la diffusione delle idee marxiste; ma in modo meno aggressivo rispetto a molti altri esponenti[10]. Nelle elezioni amministrative del 1952 non fece mancare il suo appoggio ad uno dei politici che stimava di più, Alcide De Gasperi. Il 29 novembre 1952 Pio XII suddivise le funzioni dei due pro-segretari di Stato affidando a Montini gli affari ordinari e a Tardini quelli straordinari. Arcivescovo di Milano Il 1º novembre 1954, dopo la morte di Alfredo Ildefonso Schuster, Pio XII lo nominò arcivescovo di Milano. A molti questo parve un allontanamento dalla Curia romana, perché improvvisamente egli venne estromesso dalla Segreteria di stato e assegnato all'arcidiocesi ambrosiana per precise disposizioni di papa Pacelli[11]. Tuttavia non esistono dati storicamente certi per interpretare questa decisione del Pontefice; ci fu chi parlò di “esilio” dalla Santa Sede, dando dunque una connotazione negativa alle disposizioni di papa Pacelli, però questa ipotesi non è l'unica né la più attendibile: il filosofo Jean Guitton ne parla in altri termini: la nuova missione che veniva affidata a Montini doveva essere una sorta di prova per verificare la sua forza e il suo carattere pastorale. Montini fu consacrato vescovo il 12 dicembre in San Pietro dal cardinale Eugène Tisserant, da mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia e da mons. Domenico Bernareggi, vicario capitolare di Milano. Come arcivescovo di Milano seppe risollevare le precarie sorti della Chiesa lombarda in un momento storico difficilissimo, in cui emergevano i problemi economici della ricostruzione, l'immigrazione dal sud, il diffondersi dell'ateismo e del marxismo all'interno del mondo del lavoro. Nei primi mesi del suo episcopato a Milano, esperienza che lo formò e lo segnò profondamente, Montini mostrò grande interesse per le condizioni dei lavoratori e personalmente si preoccupò di contattare unioni e associazioni nel campo oltre a tenere conferenze e relazioni sul tema. Credendo che le chiese non fossero solo strutture architettoniche ma che necessitassero di un vero corpo dato dalle anime che le animano, iniziò la costruzione di oltre 100 nuovi luoghi di culto nella regione.[12] A Milano disse più volte di considerarsi un liberale, chiedendo con forza ai cattolici di non amare unicamente quanti abbracciavano la loro fede, ma anche gli scismatici, i protestanti, gli anglicani, gli indifferenti, i musulmani, i pagani, gli atei.[13] Intraprese a questo scopo delle relazioni amichevoli con un gruppo di chierici anglicani in visita alla cattedrale milanese nel 1957 e continuò poi una fitta corrispondenza con Geoffrey Francis Fisher, Arcivescovo di Canterbury[14] L'arcivescovo Montini in Piazza del Duomo a Milano. Durante il periodo di reggenza della cattedra episcopale milanese, Montini divenne noto come uno dei membri più progressisti della gerarchia cattolica. L'arcivescovo intraprese nuovi metodi per la cura pastorale che a sua detta erano necessari per un'accurata riforma. Utilizzò la propria autorità per assicurarsi che le riforme liturgiche volute da Pio XII fossero portate a compimento anche a livello locale anche attraverso mezzi di comunicazione nuovi per l'epoca: grandi manifesti affissi per le vie di Milano e provincia annunciarono la cosiddetta "Grande missione di Milano": 1000 voci avrebbero parlato al popolo dal 10 al 24 novembre 1957, coinvolgendo così circa 300 religiosi, 83 preti, 18 vescovi, oltre a diversi cardinali e laici che tennero circa 7000 omelie durante quel periodo in 302 sedi di predicazione: non solo nelle chiese, ma anche in fabbriche, case, cortili, scuole, uffici, caserme, ospedali, alberghi e altri luoghi pubblici[15][16]. Fra le sedi di predicazione meno scontate c'erano la Scala, la Borsa, il Rotary e il Circolo della Stampa[17]. Come predicatori l'arcivescovo aveva chiamato anche sacerdoti all'epoca discussi, da don Primo Mazzolari a don Divo Barsotti, da padre Turoldo a padre Balducci, da padre Fabbretti a padre Bevilacqua e padre De Piaz[18]. L'obiettivo era quello di reintrodurre la fede in una città che a causa di molti eventi e del relativismo moderno aveva perso il senso della religione. L'arcivescovo disse a tal proposito "Se solo noi potessimo dire Padre Nostro sapendo cosa significhi, noi capiremmo dunque la fede cristiana."[19] Se la grande missione da lui avviata non trovò completo sviluppo, seppe tuttavia coinvolgere forze economiche di rilievo a vantaggio della Chiesa; cercò il dialogo e la conciliazione con tutte le forze sociali e avviò una vera e propria cristianizzazione delle fasce lavoratrici, soprattutto attraverso le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI); e questo gli garantì notevoli simpatie. Pio XII convocò a Roma nell'ottobre del 1957 l'arcivescovo Montini perché questi gli riferisse di tale sua nuova attività; fu quella l'occasione, per il prelato milanese, di presentare al pontefice il Secondo Congresso Mondiale per l'Apostolato Laico. Già come vice-segretario di Stato, aveva lavorato infatti all'unificazione delle organizzazioni del mondo laicale in 58 nazioni, rappresentanti 42 organizzazioni nazionali. "Apostolato - scriveva Montini a tal proposito - significa amore. Noi ameremo tutti, specialmente quanti hanno bisogno di aiuto... Ameremo il nostro tempo, la nostra tecnologia, la nostra arte, i nostri sport, il nostro mondo."[20] La nomina a cardinale Alla morte di Pio XII, il conclave elesse papa, il 28 ottobre 1958, l'anziano patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, il quale aveva grande stima di Montini, (fra i due vi era una consolidata amicizia fin dal 1925), tanto che lo inviò in molte parti del mondo a rappresentare il papa. Quando ancora era a Venezia, Roncalli scherzava con i familiari, dicendo: "Ora resterebbe solo il papato, ma il prossimo papa sarà l'arcivescovo di Milano", segno della stima che provava per Montini e del fatto che si aspettava che Pio XII lo nominasse cardinale; papa Pacelli, tuttavia, morì prima. Infatti, alla vigilia del conclave che lo avrebbe eletto, disse al suo segretario Loris Francesco Capovilla: "Se ci fosse stato Montini, non avrei avuto una sola esitazione, il mio voto sarebbe stato per lui"[21]. Montini fu il primo cardinale nella lista dei porporati creati da Giovanni XXIII, nel Concistoro del 15 dicembre 1958. Avevano avuto stretti rapporti di collaborazione quando erano entrambi arcivescovi, come testimonia una lettera inviata da Roncalli a Montini nel giorno della sua consacrazione episcopale: «Compiremo insieme il sacramentum voluntatis Christi di san Paolo (Efesini 1,9-10). Esso impone l'adorazione della croce, ma ci riserba, accanto ad essa, una sorgente di ineffabili consolazioni anche per quaggiù, finché ci durerà la vita e il mandato pastorale. Cara e venerata Eccellenza, non so dire di più. Ma ciò che manca ad un più diffuso eloquio, Ella me lo legga nel cuore» (Lettera di Roncalli a Montini, 12 dicembre 1954) Come cardinale, Montini viaggiò in Africa (1962), dove visitò il Ghana, il Sudan, il Kenya, il Congo, la Rodesia, il Sudafrica e la Nigeria. Di ritorno da questa esperienza, Giovanni XXIII gli diede udienza privata per rendergli conto di quanto visto, con un dialogo che durò diverse ore. Nel 1960 viaggiò in Brasile, Stati Uniti (toccando tappe importanti come New York, Washington, Chicago, l'University of Notre Dame in Indiana, Boston, Filadelfia e Baltimora). Durante questo periodo prese per abitudine anche di trascorrere le vacanze nell'Abbazia di Engelberg, uno sperduto monastero benedettino in Svizzera.[22][23] Il breve ma intenso pontificato di Giovanni XXIII vide Montini attivamente coinvolto, soprattutto come membro della commissione preparatoria del Concilio Vaticano II, aperto con una solenne celebrazione l'11 ottobre 1962. Il Concilio però si interruppe il 3 giugno 1963 per la morte di papa Roncalli, malato da qualche mese. Il conclave del 1963 e l'elezione a pontefice Dopo il decesso di Papa Giovanni XXIII, Montini era visto generalmente come il suo più probabile successore per via dei suoi stretti legami coi due papi predecessori, per il suo background nell'attività pastorale e amministrativa, oltre che per la sua cultura e determinazione.[24] Giovanni XXIII, che era giunto al Vaticano all'età di 76 anni, si era sentito sempre fuori posto negli ambienti professionali della Curia Romana del tempo; Montini al contrario conosceva bene i lavori interni all'amministrazione della curia stessa, per il fatto di avervi lavorato. A differenza degli altri cardinali papabili, come Giacomo Lercaro di Bologna o Giuseppe Siri di Genova, egli non veniva identificato né come una personalità di sinistra né come una personalità di destra, né era visto come un riformatore radicale. Era percepito come la persona più adatta per continuare il Concilio Vaticano II i cui lavori erano già stati intrapresi sotto il pontificato di Giovanni XXIII. Montini venne eletto papa al sesto ballottaggio del conclave, il 21 giugno, e scelse il nome di Paolo VI. Quando il decano del Collegio dei Cardinali Eugène Tisserant gli chiese se accettasse o meno la sua elezione, Montini disse "Accepto, in nomine Domini" ("Accetto, in nome del Signore"). Era l'epilogo di un travagliato conclave che aveva visto intervenire il cardinale Gustavo Testa, il quale perse la calma e chiese energicamente agli oppositori di Montini di non cercare più di contrastare la sua imminente elezione.[25] Quando la fumata bianca emerse dal camino della Cappella Sistina alle 11:22, il cardinale Alfredo Ottaviani, nel ruolo di Protodiacono, annunciò l'elezione di Montini. Il nuovo papa apparve alla loggia centrale della Basilica di San Pietro, impartendo la tradizionale benedizione Urbi et Orbi. L'incoronazione si svolse in piazza San Pietro la sera di domenica 30 giugno. Due giorni dopo la sua elezione a vescovo di Roma, ricevette la visita di John Fitzgerald Kennedy[26], il primo presidente cattolico degli Stati Uniti, che stava effettuando un giro delle capitali europee, tra cui la famosa visita a Berlino. Paolo VI incontrò subito i sacerdoti della sua nuova diocesi. Egli spiegò loro come a Milano egli avesse iniziato il dialogo con il mondo moderno e chiese loro di prendere contatto con tutte le persone che avessero incontrato nella loro vita. Sei giorni dopo la sua elezione egli annunciò per questo scopo la riapertura del concilio, prevista già per il 29 settembre 1963. In un messaggio radio al mondo, Paolo VI richiamò alcune delle virtù dei suoi predecessori, la forza di Pio XI, la saggezza e l'intelligenza di Pio XII nonché l'amore di Giovanni XXIII. Tra i suoi obiettivi per dialogare con il mondo pose anche la riforma del diritto canonico e il miglioramento della pace sociale e della giustizia nel mondo. L'unità della cristianità fu uno dei suoi principali impegni come pontefice. Uomo mite e riservato, dotato di vasta erudizione e, allo stesso tempo, profondamente legato a un'intensa vita spirituale, seppe proseguire il percorso innovativo iniziato da Giovanni XXIII, consentendo una riuscita prosecuzione del Concilio Vaticano II. Davanti a una realtà sociale che tendeva sempre più a separarsi dalla spiritualità, che andava progressivamente secolarizzandosi, di fronte a un difficile rapporto Chiesa-mondo, Paolo VI indicò le vie della fede e dell'umanità attraverso le quali è possibile avviare una solidale collaborazione verso il bene comune. A tal proposito, significativo fu il suo impegno in ambito umanitario: a soli venti giorni dall'elezione al Soglio pontificio, diede avvio, con la collaborazione di Adele Pignatelli e, in seguito, della beata Luisa Guidotti Mistrali, alla missione dell'Associazione Femminile Medico-Missionaria (la cui fondazione era stata da lui stesso incoraggiata) a Chirundu, in Africa. Un anno prima si era recato personalmente sul posto per stabilire la costruzione di un ospedale missionario, il quale oggi porta il suo nome. Non fu facile mantenere l'unità della Chiesa cattolica, mentre da una parte gli ultratradizionalisti lo attaccavano accusandolo di aperture eccessive, se non addirittura di modernismo, e dall'altra parte i settori ecclesiastici più vicini alle idee socialiste lo accusavano d'immobilismo. Di grande rilievo fu la sua scelta di rinunciare, nel 1964, all'uso della tiara papale, mettendola in vendita per aiutare, con il ricavato, i più bisognosi. Il cardinale Francis Joseph Spellman, arcivescovo di New York, la acquistò con una sottoscrizione che superò il milione di dollari, e da allora è conservata nella basilica dell'Immacolata Concezione di Washington. Particolarmente significativo fu il suo primo viaggio, in Terrasanta nel gennaio 1964. Per la prima volta un pontefice viaggiava in aereo, e tornava nei luoghi della vita di Cristo. Durante il viaggio indossò la Croce pettorale di San Gregorio Magno, conservata nel Duomo di Monza. In occasione di questa visita abbracciò il patriarca ortodosso di Costantinopoli Atenagora I, recatosi anch'egli in Palestina appositamente per questo incontro. Il colloquio[27] portò a un riavvicinamento tra le due chiese scismatiche, suggellato con la Dichiarazione comune cattolico-ortodossa del 1965. Completamento del Concilio Vaticano II Paolo VI, sulla sedia gestatoria, al termine dell'ultima sessione del Concilio Vaticano II. Paolo VI decise di continuare il Concilio Vaticano II (il diritto canonico infatti prevede la sospensione dei lavori di un concilio in caso di morte del papa) e lo portò a compimento nel 1965. Lo guidò con grande capacità di mediazione, garantendo la solidità dottrinale cattolica in un periodo di rivolgimenti ideologici e aprendo fortemente verso i temi del Terzo mondo e della pace. Confrontandosi con conflitti, interpretazioni e controversie, egli condusse personalmente i lavori e raggiunse diversi obiettivi. Durante il Concilio Vaticano II, i padri conciliari e quanti seguirono le mosse del cardinale Augustin Bea, presidente del Segretariato per l'Unità dei Cristiani, ottennero il pieno supporto di Paolo VI nel tentativo di assicurare che il linguaggio del Concilio apparisse amichevole e sensibile anche ad altre confessioni religiose cristiane non cattoliche come i protestanti o gli ortodossi, che seguendo l'esempio di papa Giovanni XXIIIinvitò in rappresentanza ad ogni sessione. Bea venne inoltre direttamente coinvolto nel passaggio del Nostra aetate, che regolò le relazioni della Chiesa con la religione ebraica. Con la riapertura del Concilio, il 29 settembre 1963 (seconda sessione), Paolo VI evidenziò quattro priorità chiave per i padri conciliari: • Una migliore comprensione della Chiesa cattolica; • Riforme della Chiesa; • Avanzamento nell'unità della cristianità; • Dialogo con il mondo. Il Papa ricordò ai padri conciliari che solo alcuni anni prima Pio XII aveva emesso l'enciclica Mystici Corporis Christi sul corpo mistico di Cristo. Egli chiese dunque a loro non di ripetere o creare nuove definizioni dogmatiche, ma di spiegare in parole semplici come la Chiesa vede sé stessa. Ringraziò pubblicamente i rappresentanti delle altre comunità della Chiesa e domandò perdono per le divisioni che la Chiesa cattolica aveva creato nei secoli. Sottolineò anche come molti vescovi orientali non potessero prendere parte ai lavori del Concilio, perché non avevano ottenuto il permesso da parte dei loro governi. Paolo VI aprì la terza sessione del Concilio il 14 settembre 1964 con un discorso ai padri conciliari ribadendo l'importanza del testo finale del Concilio come linea guida della chiesa stessa. Quando il Concilio discusse del ruolo dei vescovi nel papato, Paolo VI inviò una Nota Praevia confermando il primato del papato sui vescovi, un passo che da alcuni venne giudicato come un'interferenza nei lavori del Concilio. I vescovi americani fecero pressione per la libertà religiosa, ma Paolo VI ribadì queste condizioni per un perfetto ecumenismo. Il papa concluse la sessione il 21 novembre 1964, con il pronunciamento formale di Maria come Madre della Chiesa. Secondo Paolo VI, "il più importante e rappresentativo dei proponimenti del Concilio" era la chiamata universale alla santità:[28] "tutti i fedeli in Cristo di qualsiasi rango o status, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana ed alla perfezione della carità; con questo la santità è può essere promossa nella società della terra." Questo insegnamento è tra l'altro uno dei cardini della Lumen Gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa, promulgata dallo stesso Paolo VI il 21 novembre 1964. Il 27 marzo 1965 Paolo VI, in presenza di mons. Angelo Dell'Acqua, lesse il contenuto di una busta sigillata, che in seguito rinviò all'Archivio del Sant'Uffizio con la decisione di non pubblicare il contenuto. In questa lettera era scritto il Terzo segreto di Fátima. Durante tutto il suo pontificato, la tensione tra il primato papale e la collegialità episcopale rimase fonte di dissenso. Il 14 settembre 1965, anche per effetto dei risultati conciliari, Paolo VI annunciò la convocazione del Sinodo dei Vescovi, come istituzione permanente della chiesa e corpo consigliante del pontefice. Escluse però dall'ambito di questo nuovo organismo la trattazione di quei problemi riservati al papa, dei quali apprestò una ridefinizione. Vennero tenuti subito diversi incontri durante il suo pontificato, alcuni memorabili, come ad esempio il Sinodo dei Vescovi per l'evangelizzazione del mondo moderno, iniziato il 9 settembre 1974. Tra la terza e la quarta sessione, il papa annunciò delle riforme imminenti nelle aree della curia romana, una revisione del diritto canonico, la regolamentazione dei matrimoni misti che coinvolgevano diverse fedi, il tema del controllo delle nascite. Aprì l'ultima sessione del concilio concelebrando con i vescovi provenienti da quei paesi dove la Chiesa era all'epoca ancora perseguitata. Durante l'ultima fase del Concilio, Paolo VI annunciò l'apertura dei processi di canonizzazione dei suoi due immediati predecessori, papa Pio XII e papa Giovanni XXIII. il 7 dicembre 1965 fu letta, nell'ambito del Concilio Vaticano II, la Dichiarazione comune cattolico-ortodossa che revocava le reciproche scomuniche tra le due confessioni, al fine di una riconciliazione tra la Chiesa romana e la Chiesa ortodossa. Il concilio venne concluso il giorno dopo, 8 dicembre 1965, festa dell'Immacolata Concezione. Le riforme postconciliari Concluso il Concilio l'8 dicembre 1965, si aprì però un periodo difficilissimo per la Chiesa cattolica, che si trovò in un periodo storico e culturale di forte antagonismo tra i difensori di un cattolicesimo tradizionale che attaccavano gli innovatori accusandoli di diffusione di ideologie marxiste, laiciste e anticlericali. La stessa società civile era attraversata da forti scontri e contrasti politici e sociali, che sfoceranno nel sessantotto in quasi tutto il mondo occidentale. Celebre la sua frase: «Aspettavamo la primavera, ed è venuta la tempesta». Nel 1966, Paolo VI abolì, dopo quattro secoli, e non senza contestazioni da parte dei porporati più conservatori[citarli in nota], l'indice dei libri proibiti. A Natale celebrò la Messa a Firenze, ancora scossa dall'alluvione del 4 novembre, definendo il Crocifisso di Cimabue «la vittima più illustre». Nel 1967 annunciò l'istituzione della Giornata mondiale della pace, che si celebrò la prima volta il 1º gennaio 1968[29]. Il tema del celibato sacerdotale, sottratto al dibattito della quarta sessione del concilio, divenne oggetto di una sua specifica enciclica, la Sacerdotalis Caelibatus del 24 giugno 1967, nella quale papa Montini riconfermò quanto decretato in merito dal Concilio di Trento. Paolo VI rivoluzionò le elezioni papali e fu il primo a stabilire il limite di 80 anni per la partecipazione ad un conclave. Nell'Ecclesiae Sanctae, il suo motu proprio del 6 agosto 1966, invitò tutti i vescovi a considerare la possibilità del pensionamento dopo il compimento del settantacinquesimo anno di età.[30] Questa richiesta venne estesa anche a tutti i cardinali della Chiesa cattolica il 21 novembre 1970. Con queste due stipulazioni, il papa si assicurò un continuo ricambio generazionale di vescovi e cardinali oltre a una maggiore internazionalizzazione della curia romana alla luce di quanti erano costretti a ritirarsi per raggiunti limiti di età. Paolo VI conosceva bene la curia romana, avendovi lavorato dal 1922 al 1954. Egli decise dunque di condurre le proprie riforme passo dopo passo, anziché di getto. Il 1º marzo 1968, promosse una regolamentazione della curia, processo già iniziato da Pio XII e continuato da Giovanni XXIII. Il 28 marzo, con la Pontificalis Domus, e con altre costituzioni apostoliche negli anni successivi, rinnovò l'intera curia, riducendo la burocrazia, introducendo anche rappresentanze non italiane al suo interno.[31] Nel 1968, col motu proprio Pontificalis Domus, abolì molte delle vecchie funzioni della nobiltà romana alla corte papale, ad eccezione dei ruoli dei principi assistenti al Soglio pontificio. Abolì inoltre la Guardia Palatina e la Guardia Nobile: la Guardia Svizzera restò l'unico corpo militare in Vaticano. 1968: l'enciclica Humanae Vitae Paolo VI bacia un Gesù bambinodurante la notte di Natale Una delle questioni più rilevanti, per la quale papa Montini stesso dichiarò di non aver mai sentito così pesanti gli oneri del suo alto ufficio, fu quella della contraccezione, con la quale si precludeva alla vita coniugale la finalità della procreazione. Tali questioni furono trattate nella Humanae Vitae del 25 luglio 1968, la sua ultima enciclica. Il dibattito lacerante che si innestò nella società civile su queste posizioni, in un'epoca in cui il cattolicesimovedeva sorgere fra i fedeli dei distinguo di laicismo, appannò la sua autorevolezza nei rapporti con il mondo laico. In tale frangente i suoi critici gli affibbiarono il nomignolo di Paolo Mesto.[senza fonte] Il Pontefice non poté mettere in disparte il problema, e per la sua gravità destinò al proprio personale giudizio lo studio di tutte le implicazioni di tipo morale legate a tale argomento. Per avere un quadro completo, decise di avvalersi dell'ausilio di una Commissione di studio, istituita in precedenza da papa Giovanni XXIII, che egli ampliò. La decisione era molto onerosa, soprattutto perché alcuni misero in dubbio la competenza della Chiesa su temi non strettamente legati alla dottrina religiosa. Tuttavia il Papa ribatté a queste critiche, che il Magistero ha facoltà d'intervento, oltre che sulla legge morale evangelica, anche su quella naturale: quindi la Chiesa doveva necessariamente prendere una posizione in merito. Buona parte della Commissione di studio si mostrò a favore della "pillola cattolica" (come venne soprannominata), ma una parte di essa non condivise questa scelta, ritenendo che l'utilizzo degli anticoncezionali violasse la legge morale, poiché, attraverso il loro impiego, la coppia scindeva la dimensione unitiva da quella procreativa. Paolo VI appoggiò questa posizione e, riconfermando quanto aveva già dichiarato papa Pio XI nell'enciclica Casti Connubii, decretò illecito per gli sposi cattolici l'utilizzo degli anticoncezionali di natura chimica o artificiale: «Richiamando gli uomini all'osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita. [...] In conformità con questi principi fondamentali della visione umana e cristiana sul matrimonio, dobbiamo ancora una volta dichiarare che è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l'interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l'aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche. È parimenti da condannare, come il magistero della Chiesa ha più volte dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto dell'uomo che della donna. È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione.» (Paolo VI, Humanae vitae) Ma nella stessa, nel paragrafo Paternità responsabile, si dice: «In rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. Paternità responsabile comporta ancora e soprattutto un più profondo rapporto all'ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è vera interprete.» Questa decisione di papa Montini ricevette molte critiche. Tuttavia, Paolo VI non ritrattò mai il contenuto dell'enciclica, motivando in questi termini a Jean Guitton le proprie ragioni: «Noi portiamo il peso dell'umanità presente e futura. Bisogna pur comprendere che, se l'uomo accetta di dissociare nell'amore il piacere dalla procreazione (e certamente oggi lo si può dissociare facilmente), se dunque si può prendere a parte il piacere, come si prende una tazza di caffè, se la donna sistemando un apparecchio o prendendo "una medicina" diventa per l'uomo un oggetto, uno strumento, al di fuori della spontaneità, delle tenerezze e delle delicatezze dell'amore, allora non si comprende perché questo modo di procedere (consentito nel matrimonio) sia proibito fuori dal matrimonio. La Chiesa di Cristo, che noi rappresentiamo su questa terra, se cessasse di subordinare il piacere all'amore e l'amore alla procreazione, favorirebbe una snaturazione erotica dell'umanità, che avrebbe per legge soltanto il piacere.» (Jean Guitton, Paolo VI segreto) Paolo VI non mancò di smentire quelle posizioni che volevano attribuire al suo operato un tono dubbioso, amletico o malinconico, asserendo che: «è contrario al genio del cattolicesimo, al regno di Dio, indugiare nel dubbio e nell'incertezza circa la dottrina della fede» La riforma liturgica La riforma della liturgia nel corso del XX secolo era stata uno dei punti cardine fortemente voluti già da Pio XII nella sua enciclica Mediator Dei. Nel 1951 e nel 1955, i riti della Settimana Santa erano stati sottoposti a revisione. Durante il pontificato di Pio XII, fu permesso l'uso della lingua volgare nei battesimi, nei funerali e in altri eventi. Il Concilio Vaticano II, non apportò modifiche al Messale Romano, ma nella costituzione Sacrosanctum Concilium richiese una «riforma generale»[32]. Nella suddetta costituzione, i padri tracciarono i principi generali della riforma: in essa si chiedeva che fossero tolte le duplicazioni presenti nei riti, fosse introdotto un numero maggiore di brani scritturali e una qualche forma di "preghiera dei fedeli"[33] e che la lingua latina fosse conservata nei riti latini, pur concedendo un "certo spazio alla lingua nazionale" nelle letture e nelle monizioni[34]; inoltre, riguardo alla musica liturgica, furono espressamente indicate come forme di canto privilegiate per il rito romano il gregoriano e, secondariamente, la polifonia[35]. La notte di Natale del 1968 Paolo VI si recò a Taranto e celebrò la messa di mezzanotte nelle acciaierie dell'Italsider: fu la prima volta che la messa di Natale venne celebrata in un impianto industriale (evento documentato dal breve filmato di Franco Morabito intitolato L'acciaio di Natale[36]). Con questo gesto il pontefice volle rilanciare l'amicizia tra Chiesa e mondo del lavoro in tempi difficili. Dopo il Concilio Vaticano, nell'aprile del 1969, Paolo VI approvò la "nuova messa", promulgata nel 1970, in lingua nazionale a differenza della Messa Tridentina, celebrata quasi ovunque in latino.[37] Lo spirito di questo cambiamento si riferiva proprio al punto chiave della costituzione Sacrosanctum Concilium, ovvero la maggiore comprensione della Chiesa cattolica e dei suoi riti, partendo dall'uso della lingua che per essere comprensibile perfettamente doveva essere la più vicina possibile al popolo, decretando che questo non era un distanziarsi da Dio, ma anzi ravvicinarne il popolo all'altare. Un mutamento molto visibile e non previsto dalla costituzione Sacrosanctum Concilium[38] fu la mutata posizione del sacerdote rivolto con il volto verso i fedeli (versus populum) e non più verso oriente (ad Deum), secondo l'antica tradizione, in cui celebrante e i fedeli mantengono la stessa direzione. A questo fece seguito l'introduzione di musica folcloristica e moderna all'interno delle celebrazioni liturgiche, fatto che in passato era stato fortemente avversato da Pio X. Nel 2007, papa Benedetto XVI ha chiarito che la Messa tridentina nella versione approvata e revisionata da Giovanni XXIII nel 1962 e la Messa di Paolo VI del 1970 erano due forme dello stesso rito romano, il primo "mai giuridicamente abrogato" e oggi "forma straordinaria del Rito Romano", mentre l'altro "ovviamente è la continuazione della forma normale - la cosiddetta "forma ordinaria" – della liturgia eucaristica".[39] L'attentato Il 27 novembre 1970, nel corso del viaggio nel Sud-est asiatico, appena atterrato all'aeroporto di Manila, capitale delle Filippine, il pontefice fu vittima di un attentato da parte del pittore boliviano Benjamín Mendoza y Amor Flores che, munito di un kriss, lo ferì al costato. Ulteriori danni furono evitati grazie al pronto intervento del segretario personale, Pasquale Macchi[40]. La maglietta insanguinata indossata dal Papa al momento dell'attentato è conservata in un reliquiario realizzato dalla scuola di arte sacra Beato Angelico di Milano[41] ed è stata esposta durante la cerimonia della sua beatificazione[42]. Nella cattedrale di Manila è conservata la croce astile (opera dello scultore Felice Mina) dono di Sua Santità in segno di riconoscimento. Ultimi anni di pontificato[modifica | modifica wikitesto] Paolo VI in visita a Venezia nel 1972con il patriarca Albino Luciani. Da notare la stola papale posta sulle spalle del patriarca da Paolo VI poco prima. Il papa nel 1977 Il 16 settembre del 1972 Paolo VI fece una breve visita pastorale a Venezia durante la quale incontrò l'allora patriarca Albino Luciani e celebrò la Messa in piazza San Marco; al termine della celebrazione papa Montini si tolse la stola papale, la mostrò alla folla e successivamente la mise sulle spalle del patriarca Luciani davanti alla piazza, facendolo imbarazzare visibilmente. Il gesto del Pontefice non fu ripreso dalle telecamere, che avevano già chiuso il collegamento, ma fu documentato da numerose fotografie. Quell'anno celebrò la messa di Natale a Ponzano tra i minatori rispondendo ad un invito del parroco. Il 24 dicembre 1974 Paolo VI inaugurò l'Anno santo del 1975 che dedicò al "Rinnovamento e alla Riconciliazione". La cerimonia di apertura della porta santa, trasmessa in diretta televisiva con la regia di Franco Zeffirelli, fu l'ultima a prevedere l'abbattimento fisico del muro di chiusura, simbolicamente praticato dal pontefice mediante un piccone; nel corso della manovra, dall'architrave si staccarono pesanti calcinacci, che caddero a poca distanza dal papa. A seguito di questo inconveniente, già nella cerimonia di chiusura venne eliminata la cerimonia della suggellatura con cazzuola, calce e mattoni: Paolo VI si limitò infatti a chiudere a chiave i due battenti[43]. Paolo VI impresse un sigillo potente al Giubileo che andava a concludersi, baciando in segno di umiltà i piedi al metropolita ortodosso Melitone, capo della delegazione del patriarcato di Costantinopoli. Paolo VI fu il papa che rimosse la maggior parte degli ornamenti che contraddistinguevano lo splendore di cui nei secoli si era rivestito il soglio pontificio. Nel 1975 con la costituzione apostolica Romano Pontifici Eligendo) in occasione dell'inaugurazione del ministero petrino, modificò sostanzialmente l'incoronazione papale. Il suo successore, Giovanni Paolo I, la sostituì del tutto. Montini fu quindi l'ultimo papa ad essere incoronato di fronte ai fedeli. Il 17 settembre 1977 Paolo VI si recò nella città di Pescara in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale. Fu una delle sue ultime visite fuori dal territorio romano, ma rimase impressa nel ricordo dei presenti per un curioso avvenimento. In un'intervista [44] rilasciata in occasione del XXX anniversario di quell'evento, mons. Antonio Iannucci, allora titolare dell'arcidiocesi di Pescara-Penne, così ricorda l'arrivo del Pontefice sul luogo previsto per le Celebrazioni Eucaristiche (la grande Rotonda in riva al mare): «“Appena Pietro salì sulla barca il vento cessò” - racconta il Vangelo - e così avvenne anche a Pescara. Fino a qualche istante prima il cielo era piovoso, ma con l'arrivo del Papa alla Rotonda la pioggia cessò e apparve un meraviglioso arcobaleno.» Il giornalista Giuseppe Montebello racconta l'accaduto con maggiore dovizia di particolari: «Il Papa arrivò a Pescara sotto una pioggia battente, ma al Pontefice non mancò l'entusiasmo, l'esultanza e la commozione della gente. Alla Rotonda, poi, ci fu un'autentica esplosione di devozione e di affetto al Vicario di Cristo. Indossati i paramenti per la celebrazione della Messa, mentre il Papa stava per salire sull'altare, la pioggia cessò di cadere e, dietro il palco, gremito di autorità, cardinali, vescovi e sacerdoti, sbucò, nel mezzo del Mare Adriatico, uno stupendo arcobaleno nel cielo, all'improvviso, diventato azzurro!» Durante il Sequestro Moro, il 16 aprile 1978 Paolo VI implorò personalmente e pubblicamente, con una lettera[45] diffusa su tutti i quotidiani nazionali il 21 aprile, la liberazione "senza condizioni" dello statista e caro amico Aldo Moro, rapito dagli "uomini delle Brigate Rosse" alcune settimane prima. Ma a nulla valsero le sue parole: il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio 1978, nel bagagliaio di una Renault color amaranto, in via Caetani a Roma, a pochi metri dalle sedi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano. La salma di Moro fu portata dalla famiglia a Torrita Tiberina per un funerale riservatissimo; ma il 13 maggio, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, alla presenza di tutte le autorità politiche, si celebrò un rito funebre in suffragio dell'onorevole, al quale prese parte anche il Pontefice. Ci fu chi eccepì, soprattutto nella Curia, che non rientra nella tradizione che un papa partecipi a una messa esequiale, soprattutto se di un uomo politico (si cita, a proposito, il caso di Alessandro VI che non partecipò nemmeno ai funerali del figlio Giovanni), ma Paolo VI non mostrò interesse verso queste critiche; provato dall'evento, recitò un'omelia ritenuta da alcuni una delle più alte nell'omiletica della Chiesa moderna[46]. Questa omelia inizia con un profondo rammarico, ma prosegue affidandosi nuovamente alla misericordia del Padre: «Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il "De profundis", il grido, il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!» La morte Da una parte, Paolo VI appoggiò l'"aggiornamento" e la modernizzazione della Chiesa, ma dall'altra, come tenne a sottolineare il 29 giugno 1978, in un bilancio a poche settimane dalla morte, la sua azione pontificale aveva tenuto quali punti fermi la "tutela della fede" e la "difesa della vita umana"[7]. Il suo stato di salute da allora si deteriorò progressivamente e tre mesi dopo, alle 21:40 del 6 agosto 1978, Paolo VI si spense nella residenza di Castel Gandolfo a causa di un edema polmonare. Lasciò un testamento[47], scritto il 30 giugno 1965, salvo due successive lievi aggiunte; esso fu reso noto cinque giorni dopo la morte, l'11 agosto. In esso egli confida le sue paure, la sua esperienza di vita, le sue debolezze, ma anche le proprie gioie per una vita donata al servizio di Cristo e della Chiesa. «Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara. [...] Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare Te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite? [...] E sento che la Chiesa mi circonda: o santa Chiesa, una e cattolica ed apostolica, ricevi col mio benedicente saluto il mio supremo atto d'amore [...] ai Cattolici fedeli e militanti, ai giovani, ai sofferenti, ai poveri, ai cercatori della verità e della giustizia, a tutti la benedizione del Papa, che muore» (Paolo VI, Testamento) Nelle sue ultime disposizioni, Paolo VI dispose l'abbandono dei tradizionali fasti delle esequie pontificali: «[...] i funerali: siano pii e semplici [...] La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me.» (Paolo VI, Testamento) La salma, rivestita senza sfarzo (una semplice casula rossa, pallio, mitra e camice bianchi, mocassini rossi), dopo un primo omaggio riservato agli intimi e alle autorità, venne ricondotta in Vaticano il 9 agosto ed esposta per tre giorni all'omaggio dei fedeli dinnanzi al baldacchino di San Pietro: sempre su indicazioni testamentarie, l'ostensione non avvenne su di un alto catafalco (come da prassi secolare), ma su un basso cataletto. Complice la calura estiva e un intervento conservativo inappropriato, il corpo di papa Montini palesò presto i sintomi della decomposizione. Innovativa e sobria fu anche la messa esequiale, celebrata il 12 agosto, per la prima volta non nella basilica petrina, ma in Piazza San Pietro: la salma venne ricomposta in una bara semplicissima, di legno chiaro, che fu deposta a terra sul sagrato; sopra di essa venne posto un Vangelo aperto. Terminata la cerimonia, la cassa, inserita in altre due casse di zinco e legno, fu inumata nelle Grotte Vaticane. Fu la prima volta da secoli che il funerale di un pontefice romano si svolse con un rito così sobrio: i suoi due successori, che non mancheranno di richiamarsi a Paolo VI e di citarlo come loro guida spirituale, si conformeranno a tali novità.
Biografia Cardinale Martini
Sacerdote e biblista
Carlo Maria Martini nacque a Torino il 15 febbraio 1927, da Leonardo Martini, un ingegnere torinese originario di Orbassano (dove si recò come sfollato in tempo di guerra) e da Olga Maggia. Venne battezzato una settimana dopo la nascita nella parrocchia Immacolata Concezione di Borgo San Donato,[2] il quartiere dove trascorse anche l’infanzia e l’adolescenza.
Sviluppò sin da giovanissimo interessi biblici:
«Mi misi a cercare nelle biblioteche di Torino una traduzione italiana del Nuovo Testamento completo. Trovai edizioni dei Vangeli, ma facevo fatica a trovare un’edizione completa del Nuovo Testamento tradotta dal greco. La trovai solo dopo parecchie ricerche. Avevo allora circa undici, dodici anni.» |
Nel 1944 all’età di 17 anni entrò nella Compagnia di Gesù presso la casa religiosa dei gesuiti di Cuneo. Compì gli studi presso l’Istituto Socialedi Torino e ricevette l’ordine sacro il 13 luglio 1952 a Chieri nella Chiesa di Sant’Antonio dal cardinale Maurilio Fossati, arcivescovo di Torino. Circa la propria vocazione, dichiarò poi:
«Dovrei porre due momenti: quello della mia scelta religiosa, che risale a un tempo lontano; è la prima intuizione che Dio è tutto, e tutto può chiedere. Io vivevo nell’ambiente dei gesuiti, e scoprivo la loro dedizione completa, e la sentivo come la radice di ogni decisione possibile. Ma mi accorgo che dopo molti anni ho un po’ come riscoperto l’aspetto evangelico, che cosa significa portare la buona novella tra la gente del mondo. Fino a questa rivelazione, ho vissuto imparando, mandando a memoria gesti e modi di essere, poi ho trovato una maniera più personale, acqua che nasce come sorgente.» |
(Carlo Maria Martini[4]) |
Conseguì il dottorato in teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana nel 1958, con una tesi dal titolo Il problema storico della Risurrezione negli studi recenti.
Nel 1959 compie il suo primo viaggio in Terra santa visitando luoghi archeologici come studioso.
Il comitato per la pubblicazione del Nuovo testamento greco negli anni ’60
Nel 1964 cura una nuova edizione del Nuovo Testamento in greco e latino. Dopo aver insegnato nella Facoltà teologica di Chieri, tornò a Roma e, nel 1966, si laureò in Sacra Scrittura summa cum laude al Pontificio Istituto Biblico con l’importante tesi “Il problema della recensionalità del codice B alla luce del papiro Bodmer XIV”, pubblicata nello stesso anno. Proseguì gli studi in Sacra Scrittura sempre presso il Pontificio Istituto Biblico, dove nel 1962 gli venne assegnata la cattedra di critica testuale e il 29 settembre 1969 venne nominato rettore, incarico che manterrà fino al 1978. Come rettore compie numerose visite a Gerusalemme, diviene amico di Shemaryahu Talmon, rettore dell’università ebraica di Gerusalemme, con cui instaura una serie di rapporti e collaborazioni, arrivando a un programma di scambi interculturali in cui gli studenti italiani (in prevalenza religiosi e religiose) avrebbero potuto frequentare un semestre di studi nell’università di Gerusalemme, per meglio conoscere il mondo e la cultura ebraica, programma ancora dopo 30 anni della sua nascita.[5]
Nello stesso periodo diventa uno dei cinque studiosi riuniti in un comitato internazionale incaricato di curare una nuova edizione critica del Nuovo testamento greco, Martini è l’unica componente cattolica e l’unica italiana del comitato costituito da studiosi di diverse confessioni cristiane.
Dal 1974 al 1980 ha fatto parte della Pontificia commissione biblica internazionale. Il 18 luglio 1978 papa Paolo VI lo nominò magnifico rettore della Pontificia Università Gregoriana succedendo al gesuita canadese Hervé Carrier. Nella Quaresima dello stesso anno inoltre era stato invitato dal papa a predicare il ritiro annuale in Vaticano.
Arcivescovo di Milano
«La più grande gioia? I ventidue anni di episcopato a Milano.» |
(Carlo Maria Martini intervistato da Aldo Maria Valli nel 2011.[6]) |
Insediamento e primi anni
10 febbraio 1980, cerimonia di insediamento di Carlo Maria Martini in piazza del Duomo a Milano
Nominato arcivescovo di Milano il 29 dicembre 1979 da papa Giovanni Paolo II, venne da lui consacrato nella basilica di San Pietro il 6 gennaio successivo. Il 10 febbraio 1980 fece l’ingresso a piedi nella diocesi ambrosiana, dicendo “Vengo da lontano, come Paolo, con titubanza”, succedendo al cardinale Giovanni Colombo.
Nel 2001, ricordando il suo ingresso a Milano nella lettera pastorale “Sulla tua parola”, scriverà:
«Mi riconoscevo nella confessione di Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5,8); sperimentavo infatti un senso di indegnità e di confusione, percepivo tutta la mia fragilità e inadeguatezza, ma insieme nutrivo la fiducia che Dio non avrebbe abbandonato il suo discepolo. Avvertivo mie le parole di Isaia – ascoltate nella prima lettura di quella stessa Messa -: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono!” (Is 6,5), parole così vicine alla dichiarazione di Pietro. Percepivo tuttavia nella profondità del mio cuore che Gesù stava dicendo proprio a me, in modo nuovo, le parole rivolte a Pietro: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5,10). A distanza di oltre vent’anni avverto il bisogno profondo di ringraziare Dio perché la promessa è stata mantenuta al di là di ogni mia attesa.» |
(Lettera pastorale Sulla tua parola[7]) |
2 febbraio 1983, papa Giovanni Paolo II pone la berretta cardinalizia sul capo di Carlo Maria Martini
Fin dall’inizio la sua attività pastorale venne caratterizzata dalla ricerca di un contatto personale con tutte le realtà umane della diocesi, con passeggiate solitarie nelle vie cittadine, arrivando a festeggiare il suo primo onomastico servendo la minestra ai “barboni” nel rifugio di fratel Ettore sotto la stazione centrale.[8] Ritornò da fratel Ettore nel 2000, due anni prima di salutare la città.
Nel 1980, il suo primo anno da vescovo, caddero uccisi dai brigatisti il magistrato Guido Galli e il giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi. Lui celebrò i funerali e nello stesso tempo disse sì alla richiesta di battezzare i due gemelli di Giulia Borrelli, terrorista di prima Linea che era in carcere per aver sparato a un uomo.[9]
Nel novembre dello stesso anno avviò nella diocesi la pratica della Scuola della Parola, ricalcata sulla Lectio divina, per insegnare a «leggere un testo biblico usato nella liturgia, per gustarlo nella preghierae applicarlo alla propria vita».[10]
Più volte, nel primi anni, è stato sul punto di rinunciare di fronte al peso delle responsabilità. In quel periodo lavorava tantissimo. A volte andò anche a trovare in segreto famiglie bisognose della città, fermandosi a cena da loro, servendo a tavola e chiedendo anche di lavare i piatti. Approfittò anche del breve periodo di anonimato, all’inizio quand’era ancora quasi sconosciuto, per passeggiare in città o andare a comprare il giornale.[11]
Gli anni del terrorismo
Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e neo cardinale, riceve nel capoluogo lombardo papa Giovanni Paolo II nel 1984
Il 2 febbraio 1983 papa Giovanni Paolo II lo creò cardinale presbitero del titolo di Santa Cecilia. Fu il porporato italiano più giovane fino alla creazione del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo metropolita di Bologna.
In uno dei suoi primi atti come cardinale Martini, con l’intermediazione del cappellano don Melesi visitò il gruppo di terroristi detenuti nel carcere milanese di San Vittore iniziando un dialogo con coloro che intendevano dissociarsi o pentirsi della loro scelta.[12] Sempre nel 1983 fu scelto come interlocutore dai militanti di Prima Linea in una “conferenza di organizzazione” che si tenne nel carcere Le Vallette di Torino, dove erano concentrati la gran parte degli imputati del “maxiprocesso” che era in corso contro l’organizzazione, che decisero di far consegnare proprio all’arcivescovo Carlo Maria Martini le armi ancora in disponibilità dei piellini rimasti liberi.[13] Il 13 giugno 1984 uno sconosciuto si presentò nell’arcivescovado di Milano al segretario di Martini e abbandonò sul tavolo tre borse da tennis contenenti le ultime armi dell’organizzazione terroristica,[14] tra cui due AK-47 Kalashnikov, mitra, pistole, munizioni e bombe per bazooka; la consegna delle armi venne preannunciata a Martini da Ernesto Balducchi, leader dei Comitati Comunisti Rivoluzionari e sotto processo al tempo, con una lettera speditagli il 14 maggio.[12] Secondo Sergio Segio, “quel gesto generoso di Martini sicuramente accelerò la fine della lotta armata e contribuì a dare speranza e un nuovo progetto a migliaia di giovani incarcerati”.[15]
Nell’agosto del medesimo anno battezzò, a seguito di una richiesta avuta durante la visita natalizia in carcere, due gemelli nati da Giulia Borelli e Enrico Galmozzi, membri di Prima Linea, provocando malumori e proteste in alcuni circoli cattolici e Sergio Lenci, una delle vittime di questi terroristi, spedì una lettera aperta di protesta al quotidiano la Repubblica. Di fronte alle numerose critiche ricevute Martini spiegò la sua opera in un articolo pubblicato in settembre su La Civiltà Cattolica spiegando che il rinnovamento della società deve passare per il rinnovamento dell’uomo e che la Chiesa deve facilitare ciò dando il benvenuto ad ogni manifestazione di buona volontà, incluse quelle provenienti dalle carceri.[12]
È del novembre 1986 il grande convegno diocesano ad Assago sul tema del “Farsi prossimo”, dove viene lanciata l’iniziativa delle Scuole di formazione all’impegno sociale e politico.[16] Al Sinodo mondiale dei laici, sempre nello stesso anno, tenne un intervento durissimo sulle degenerazioni dei movimenti, sulla loro autoreferenzialità rispetto alla Chiesa. Per Martini Vangelo e potere sono sempre stati incompatibili, quasi inconciliabili.[senza fonte]
La Cattedra dei non credenti e il dialogo con l’Islam
Carlo Maria Martini
Nel 1986 divenne presidente del Consiglio delle Conferenze dei Vescovi d’Europa, carica che manterrà fino al 1993. Nel 1987 avviò nell’arcidiocesi l’iniziativa, conclusasi nel 2002, della Cattedra dei non credenti, occasione di incontro e di dialogo tra cristiani e non credenti, rivolta nelle intenzioni di Martini a tutti i “pensanti” senza distinzione di credo.[17]
Nel tradizionale Discorso alla Città del giorno di Sant’Ambrogio del 1990 stupì tutti i presenti dedicando tutto l’intervento al tema civile e spirituale del rapporto tra “i milanesi e l’Islam“. Raccomandò alla comunità civile in vista di una necessaria “integrabilità” di trasmettere con forza ai nuovi venuti la consapevolezza di non potersi appellare ai principi della legge islamica per ottenere spazi e prerogative giuridiche specifiche in un regime di laicità, sollecitando l’accoglienza e il dialogo.[18]
Nel 1993, Helmut Kohl fu invitato da Mino Martinazzoli e Pierluigi Castagnetti in Italia. Il cancelliere pose come condizione una cena in arcivescovado, durante la quale Kohl e Martini parlarono tutto il tempo di teologia, non di politica, e in tedesco. Il cancelliere tedesco rimase affascinato dal cardinale italiano tanto che considerava Martini un cardinale seriamente papabile e uno dei pastori più consapevoli e attrezzati per affrontarne l’enorme portata.[19]
Il 4 novembre 1993 Martini convocò il 47º sinodo diocesano di Milano,[20] che si concluse nel 1995.
Massimo propulsore dell’ecumenismo tra le varie Chiese e confessioni cristiane da parte cattolica, sollecitò a Milano la fondazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese Cristiane. Al contempo promosse in maniera coraggiosa rispetto al magistero il dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, segnando in materia una svolta non solo a Milano e in Italia, ma in Europa e in Occidente; in questo campo trovò la piena collaborazione e adesione da parte di intellettuali come Paolo De Benedetti e il Rabbino Capo di Milano, Giuseppe Laras.
Verso il 2000
«Liturgia e vita spirituale, catechesi ed evangelizzazione, dialogo e servizio della carità dovranno conoscere nell’anno giubilare un nuovo slancio, motivato dal rinnovato incontro con la bellezza di Dio, sperimentato in questa sorta di Tabor del cammino del tempo che è l’anno 2000.» |
(Lettera pastorale Quale bellezza salverà il mondo?[21]) |
Nel 1997 presiedette le celebrazioni del sedicesimo centenario della morte di Sant’Ambrogio, patrono dell’arcidiocesi di Milano. Nell’ottobre del 1999 partecipò come membro al sinodo dei vescovi europei. Proprio a questo sinodo evocò “il sogno di una Chiesa giovane” e propose la creazione di un nuovo concilio per discutere sui problemi più spinosi, tra cui la posizione delle donne nella società e nella Chiesa, la questione della sessualità e la partecipazione dei laici nella disciplina cattolica del matrimonio.
Il 23 novembre 2000 papa Giovanni Paolo II lo nominò accademico onorario della Pontificia accademia delle scienze.[22]
Sempre nel 2000 nacque il Natale degli Sportivi, un tradizionale appuntamento fortemente voluto da Martini, che a ogni vigilia di Natale riunisce attorno all’Arcivescovo l’intero mondo sportivo diocesano, professionistico e non.
Il 7 dicembre 2001 inaugurò il Museo diocesano di Milano situato presso i Chiostri di Sant’Eustorgio, parte dell’antico convento domenicano, restituito alla città dopo un lungo periodo di restauro.
Arcivescovo emerito
«Ora forse vi chiederete che cosa mi appresto a fare dopo aver compiuto i 75 anni e aver esercitato il ministero di vescovo per ventidue anni e sette mesi, che è quasi identicamente il tempo in cui servì questa Chiesa il mio grande predecessore Sant’Ambrogio, alla cui ombra vorrei collocarmi come ultimo dei suoi discepoli. Ciò che mi preparo a fare vorrei esprimerlo con due parole: una che indica novità e un’altra che indica continuità.» |
L’11 luglio 2002 vennero accettate dal papa le dimissioni per sopraggiunti limiti di età, presentate secondo le norme del Codice di diritto canonico al compimento dei 75 anni. Alla cattedra di Ambrogio, diventato arcivescovo emerito, gli successe il cardinale Dionigi Tettamanzi. Nello stesso anno viene insignito, nella cerimonia per la consegna dell’Ambrogino d’oro, della Grande Medaglia d’oro del comune di Milano.[23][24]
Il periodo a Gerusalemme
Dal 2002 al 2007 il cardinale Martini visse prevalentemente a Gerusalemme, dove riprese gli studi biblici: a 75 anni ha ritradotto il papiro Bodmer, uno dei più antichi manoscritti biblici a noi pervenuti, contenente la Prima e la Seconda lettera di Pietro. Sono stati, poi, anni di preghiera intensa per la pace, nel periodo più duro della Seconda intifada.[25]
Il desiderio così forte di ritornare a Gerusalemme fu raccontato da Martini stesso in un’intervista concessa a “Il mio novecento”, un programma della Rai, in cui disse di aver rischiato di venire letteralmente seppellito dalla Terra Santa. Capitò ai pozzi di El Gib, reperti del tempo del Re Salomone, allora appena riscavati dagli archeologi.[26]
«La terra cominciò a franare e io mi sentii rotolare dentro il pozzo. Ebbi un pensiero molto chiaro: come è bello morire qui in Terra Santa. Mi diede una grande calma per cui, senza agitarmi, misi le mani dentro la terra e rimasi fermo sull’orlo, così potei essere salvato. Ne uscii quasi incolume e con l’idea che questa è la mia terra.» |
In questi anni, ogni sera, dopo la messa che celebrava al Pontificio Istituto Biblico, la residenza dei gesuiti, incontrava personalmente molti pellegrini. Era solito passeggiare con il panama bianco e un bastone elegante nella città vecchia, tra la Porta di Damasco e quella di Jaffa, un itinerario che compiva spesso per recarsi dalla casa dei gesuiti biblisti al Santo Sepolcro.
In quanto cardinale elettore, partecipò al conclave del 2005 che elesse papa il cardinale Joseph Ratzinger, con il nome di Benedetto XVI. In tale occasione, venne indicato dai media come uno dei papabili, sostenuto dall'”ala progressista” del collegio cardinalizio.[27][28][29] Secondo un resoconto di quel conclave fornito da un cardinale anonimo e raccolto dal vaticanista Lucio Brunelli, il cardinal Martini tuttavia avrebbe ottenuto meno consensi del previsto e il duello sarebbe stato tra Ratzinger e Bergoglio.[30]
Il 15 febbraio 2007 in occasione dell’ottantesimo genetliaco del cardinale Martini, in base a quanto disposto dal motu proprio Ingravescentem Aetatem di Paolo VI del 1970, decaddero tutti gli incarichi ricoperti nella Curia romana e con essi il diritto di entrare in conclave.
Per ricordare gli anni da lui trascorsi a Gerusalemme e per il suo impegno per il dialogo con il mondo ebraico, sulle sponde del Lago di Tiberiade, è sorta una foresta a lui dedicata, inaugurata a giugno 2013.[31][32]
Il ritorno in Italia
Carlo Maria Martini all’Università Vita-Salute San Raffaele nel 2010
Rientrò in Italia definitivamente nel 2008 e si stabilì presso l’Aloisianum, la casa dei gesuiti a Gallaratedove aveva studiato da giovane, per curare la malattia di Parkinson ,[33] che rapidamente lo costrinse al silenzio e all’immobilità.[34]
Dal 28 giugno 2009 il cardinale curò con cadenza mensile una rubrica dedicata alla fede sul quotidiano italiano Corriere della Sera, rispondendo alle domande poste dai lettori. Mantenne la rubrica fino al 24 giugno 2012.[35]
Nel marzo 2010, in tema alle vicende sulla pedofilia nella Chiesa cattolica, alcune agenzie e testate riportarono un suo pronunciamento favorevole al ripensamento dell’obbligo di celibato dei preti.[36] In un comunicato diffuso però dall’arcidiocesi di Milano, egli smentì queste dichiarazioni, spiegando che anzi ritenne «una forzatura coniugare l’obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi a sfondo sessuale».[37]
Malattia e morte
«Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio.» |
(Il cardinal Martini sulla morte) |
Il cardinal Martini fu affetto da malattia di Parkinson per circa 16 anni. Non lo tenne nascosto, ma, anzi, lo dichiarò apertamente e negli ultimi anni partecipò anche ai convegni sulla malattia.[38]
Nel 2008, dopo 6 anni a Gerusalemme, rientrò in Italia. Il ritorno al suo paese non fu legato alla malattia, considerando che le sue condizioni di salute erano ancora discrete. Negli ultimi anni le sue visite e i suoi impegni erano diminuiti per l’impossibilità di comunicare agevolmente: per parlare era infatti costretto a far ricorso a un piccolo amplificatore e all’aiuto dei collaboratori. Ciononostante, il 2 giugno 2012 ha potuto incontrare papa Benedetto XVI, in visita a Milano per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie, per un breve colloquio in una saletta dell’arcivescovado. Nonostante la malattia non ha fatto mai mancare i suoi interventi sui media toccando temi attualissimi e spesso discordando con quelli del Vaticano.[39]
A maggio 2012, l’amico rabbino Giuseppe Laras recatosi a salutare il cardinale, si congedò prendendogli tra le mani la testa e recitando in ebraico la benedizione sacerdotale (vd. Libro dei Numeri); al termine, Martini raccolse le forze e benedisse nello stesso modo il rabbino.
Da metà agosto 2012 il cardinal Martini non fu più in grado di deglutire i cibi, ma rifiutò l’accanimento terapeutico. Il 30 agosto il cardinale Angelo Scola, suo successore all’arcidiocesi di Milano, rese pubblico l’aggravarsi delle condizioni di salute di Martini e invitò a pregare per lui.[40] La morte sopraggiunse l’indomani alle 15:45.[41]
Le due file di persone entranti in Duomo per rendergli omaggio
La salma del cardinal Martini, vestita con la casula bianca della messa di Resurrezione, con la croce pettorale, la mitria, il pastorale e il pallio, venne composta sabato 1º settembre sotto l’altare maggiore del Duomo di Milano.[42] Sono state oltre 200.000 le persone che fino a lunedì pomeriggio, durante la camera ardente allestita in Duomo e aperta giorno e notte, hanno sfilato davanti alla salma, formando due lunghe code inizianti da piazza della Scala.[43]
La bara del cardinale esposta ai fedeli davanti l’altare maggiore
Alle esequie, celebrate il 3 settembre dall’arcivescovo di Milano Angelo Scola, presero parte 21.000 persone, tra le quali 12 cardinali, 38 vescovi, 1.200 sacerdoti, il presidente del Consiglio Mario Monti e numerose autorità civili.[44] Nel corso della celebrazione fu letto il messaggio di Benedetto XVI che ricordava l’amore per le Sacre Scritture e la disponibilità all’incontro con tutti.[45] Nello stesso giorno una cerimonia di rito ebraico fu organizzata dalla comunità ebraica di Milano.
Al termine dei funerali fu tumulato in Duomo, come i suoi tre predecessori san Carlo Borromeo, Alfredo Ildefonso Schuster e Giovanni Colombo, davanti all’altare del Crocifisso di San Carlo.[46][47] Perché il desiderio del cardinale Martini di essere sepolto in Terra Santa trovasse in qualche modo effettiva realizzazione, in occasione del sigillo definitivo del sepolcro vi furono posti due sacchetti di terra di Eretz Yisrael, fatti giungere dal rabbino Giuseppe Laras e due pergamene, una in ebraico e una in latino.
Per disposizioni testamentarie, i diritti di autore di Martini furono ereditati dalla Compagnia di Gesù, gli oggetti personali dai congiunti e quelli legati all’episcopato lasciati al Duomo di Milano.[48]
Il 2 novembre 2012 il nome di Martini viene iscritto al Famedio insieme a quelli dei “Grandi di Milano”.[49] In occasione del primo anniversario della morte, è stata presentata a papa Francesco la neonata Fondazione Carlo Maria Martini.
Il 21 febbraio 2016 la via dell’Arcivescovado a Milano diventa via Carlo Maria Martini.
Biografia
Il periodo anglicano (1801-1845)
La giovinezza (1801-1825)
La famiglia e Walter Mayers (1801-1817)
John Henry Newman ritratto nel 1824
John Henry Newman apparteneva ad una famiglia anglicana, e nacque a Londra il 21 febbraio 1801. Primo di sei fratelli, il padre John Newman era banchiere, mentre la madre Jemina Fourdrinier (1772-1836) discendeva da una famiglia di ugonotti emigrati in Inghilterra in seguito alla revoca dell’editto di Nantes[8][9]. La forte fede religiosa di stampo evangelico della madre[10] e della nonna paterna, Elizabeth Newman[11], influirono sull’animo del giovane John Henry, già introverso e portato alla riflessione fin dalla prima infanzia. Al contrario, il padre del futuro cardinale era un uomo meno rigido in materia dottrinale, appassionato più di Shakespeare e di musica che di religione[12]. John Henry ricevette un’educazione elevata nella scuola di Ealing[13] (nei pressi di Londra) e, sotto l’influsso del pastore Walter Mayers (vicino agli ambienti della Low Church), nel 1816 aderì ai principi del cristianesimo protestante, in quella che egli chiamò la sua “prima conversione”[14]. Furono infatti le letture di due teologi anglicani (Thomas Newton, vescovo di Bristol, e Joseph Milner, figura di spicco dell’evangelismo) ad imprimere l’animo di Newman di convinzioni protestanti radicali e antipapiste[15].
L’arrivo ad Oxford e l’incontro con i noetics (1817-1825)[modifica | modifica wikitesto]
Nel 1817 entrò al Trinity College di Oxford, ove si segnalò per la vivacità d’ingegno e intelletto, fatto che lo portò ad essere nominato fellow dell’Oriel College il 12 aprile 1822[8]. Deciso ad intraprendere la vita ecclesiastica, Newman fu ordinato diacono della Chiesa anglicana il 13 giugno del 1824[16]. Il padre John ebbe appena il tempo di vederlo diventare ministro della Chiesa anglicana: ridotto in povertà e gravemente ammalato, morì il 29 settembre dello stesso anno[17]. Il figlio divenne poi presbitero nel 1825 ed ebbe, come primo incarico, quello di vicar[18] di Saint Clement, una parrocchia facente parte di Oxford. Nel corso di questi anni, il giovane studente evangelico cominciò ad osservare il pluralismo intellettuale vigente nell’ateneo, entrando lentamente in contatto con il gruppo dei teologi liberali, detti noetics, che cercavano di spiegare razionalmente i dogmi e la fede cristiana[19]. Tra questi spiccavano come figure Edward Hawkins e Richard Whately, che istruirono lentamente Newman nel valore della Chiesa visibile[20], nel valore dei sacramenti, in special modo la successione apostolica. Quando fu ordinato sacerdote, Newman conosceva già da tre anni Whately[21], e aveva cominciato a maturare quei primi dubbi dottrinali impartitegli da Mayers ad Ealing.
L’abbandono dei noetics e l’avvicinamento all’High Church (1825-1832)
Froude e l’avanzata del liberalismo
William Holl, ritratto di John Keble, stampa, 1863, Metropolitan Museum of Art, New York. John Keble (1792-1866), sacerdote, teologo e poeta, fu il leader morale della frangia conservatrice religiosa anglicana nell’Università di Oxford.
Il rapporto con i noetics s’incrinò definitivamente a partire dalla fine del 1827, quando Newman fu colpito da due gravi avvenimenti: prima un esaurimento nervoso (26 novembre 1827), seguito poi dalla morte della sorellina Mary agli inizi dell’anno successivo (5 gennaio 1828)[22]. Nella sua intimità spirituale, allora, il giovane fellow di Oxford comprese come la ragione non potesse spiegare il dolore, e Roderick Strange esplica chiaramente questo stato d’animo, con una frase incisiva:
«Come poteva l’eccellenza intellettuale essere paragonata alla perdita della sorella amata, o persino guastare la propria salute?» |
(Strange, p. 40) |
Inoltre, Newman si stava accorgendo di «preferire una perfezione intellettuale ad una perfezione morale»[23], e che soltanto questi due traumi personali poterono ridestarlo dall’intellettualismo dei noetics[24]. Pertanto, cominciò ad allontanarsi da Whately e Hawkins nel 1828[25], per frequentare l’altra grande scuola teologica anglicana presente ad Oxford, vale a dire la High Church (chiamata, dopo l’esperienza del Movimento di Oxford, anche Anglo-cattolicesimo), caratterizzata da una profonda attenzione verso il rituale eucaristico, l’importanza dei sacramenti e una “simpatia” nei confronti delle tradizioni cattoliche[26]. Newman, fino a quel momento, era visto con sospetto dai principali esponenti di questa fazione (Richard Hurrell Froude, John Keble e altri) per il suo ostentato razionalismo e per i suoi legami (seppur ridotti ormai sul piano formale) con gli evangelici. La situazione mutò definitivamente dal 1828, quando ci fu la rottura definitiva con Whately e la fuoriuscita dalla Evangelical Biblical Society (giugno 1829)[27]. Da quel momento, Newman sviluppò una solida amicizia sia con Keble che con Froude[28], dei quali condivideva il valore della Tradizione, il rispetto nei confronti dei santi e delle tradizioni cattoliche romane, fuorché il riconoscimento del primato papale. In special modo, Newman strinse un rapporto molto profondo con il tory Richard Hurrell Froude (1803-1836), del quale Newman tracciò questo ritratto morale:
«Froude professava apertamente ammirazione per la Chiesa di Roma e avversione per i Riformatori. Gli piaceva immensamente l’idea di un sistema gerarchico, del potere sacerdotale. Disprezzava la massima secondo cui “la Bibbia, solamente la Bibbia, è la religione dei protestanti”, e si vantava di accettare la Tradizione come uno strumento di primaria importanza nell’insegnamento religioso […] considerava la Beata Vergine il suo grande modello [….] Era profondamente devoto della presenza reale, in cui aveva una salda fede. Si sentiva profondamente attratto verso la Chiesa medievale ma non verso la Chiesa primitiva.» |
Ritratto del cardinale Nicholas Patrick Wiseman. Rettore prima del Collegio Cattolico di Roma, poi direttore della testata Dublin Review, Wiseman fu il primo arcivescovo di Westminster dopo la restaurazione della gerarchia in Inghilterra.
Come già nei precedenti incontri, Newman si sentì “influenzato”[29] dalle opinioni religiose di chi gli si avvicinava, ma in questo caso non si trattò di un’influenza passeggera. In occasione della proposta, da parte del governo del duca di Wellington, di abrogare il Test Act[30], decreto del 1680 con cui si vietava ai cattolici inglesi di esercitare alcun incarico politico. Newman e gli altri high churchmen intravidero un’usurpazione del potere parlamentare nella sfera ecclesiastica. Quando poi un riluttante Giorgio IV firmò il decreto di abrogazione (il Relief Act)[30], Newman manifestò apertamente il suo sdegno, paventando l’avanzata del liberalismo in campo religioso, pronto a sottomettere la Chiesa anglicana ai capricci dello Stato (la cosiddetta dottrina erastiana). Il giovane parroco di St. Mary the Virgin[31] si trovò in piena sintonia con i suoi amici conservatori, maturando così le basi ideologiche che si concretizzeranno nel Movimento di Oxford.
Il viaggio nel Mediterraneo e il contatto con la Chiesa cattolica (1832-1833)
Una svolta significativa nella vita di Newman fu il viaggio nel Mediterraneo insieme a Froude e al padre di quest’ultimo, l’arcidiacono Robert Froude[30]. Infatti, da un po’ di tempo, l’amico di Newman aveva cominciato a manifestare i sintomi della tubercolosi che lo porterà alla tomba nel 1836. I medici, ancora impotenti nel curare efficacemente questa malattia, consigliarono a Froude di compiere un viaggio di cura nel Mediterraneo[30], perché potesse trovare giovamento dal clima più salubre di quello inglese. Newman, cui Froude chiese di accompagnarlo, accettò l’invito e, nel dicembre del 1832[16], i tre partirono alla volta di Gibilterra, Malta, la Sicilia ed infine Roma. Qui Newman, che da qualche anno aveva cominciato a studiare storia della Chiesa e patrologia, rimase affascinato dalla spiritualità dei luoghi ove versarono il sangue i martiri[32] e, durante la sua permanenza nella Città Eterna (tra il 2 marzo e il 9 aprile del 1833[33]), poté entrare in contatto con la spiritualità e la religiosità della Chiesa cattolica, annotandone gli aspetti di decadenza e di immoralità. Sempre a Roma, incontrò una delle più importanti figure nel panorama religioso inglese del XIX secolo, padre Nicholas Patrick Stephen Wiseman, rettore del Collegio Inglese e futuro primo arcivescovo di Westminster dopo la restaurazione della gerarchia cattolica in Inghilterra (1851)[34]. Mentre i Froude decisero di proseguire per la Francia, Newman preferì ritornare in Sicilia, dove, a Leonforte, presso Enna, nel 1833, si ammalò gravemente[30]. Da quest’esperienza dolorosa, Newman rifletté sul senso della propria vita e scrisse quel capolavoro letterario che è la lirica spirituale Lead, Kindly Light, espressione sincera dell’abbandono della propria vita nelle mani di Dio[35].
Il Movimento di Oxford (1833-1841)
Keble e il Sermone delle Assise (1833)
Il testo di Lead, Kindly Light, musicato da John Bacchus Dykes.
Nel frattempo, il parlamento inglese, dominato dal partito liberale guidato da Lord Grey (1830-1834), continuò la politica erastiana di Wellington e Peel. La situazione, per il gruppo dei conservatori anglicani della High Church di Oxford, divenne pressoché intollerabile[36], spingendo John Keble a pronunciare, in occasione delle Assise[37] del 14 luglio 1833[38], un sermone sull’Apostasia Nazionale (National Apostasy), in cui si proclamò che la Chiesa anglicana è sì una Chiesa di Stato, ma non dello Stato[39], denunciandone la strumentalizzazione da parte dello Stato[38]. Tale discorso, pubblicato poi nel settembre del medesimo anno[40], trovò l’immediata soddisfazione di Newman e di Froude, ritornati nel frattempo in Inghilterra. Newman identificò quel giorno con la nascita del Movimento di Oxford (The Oxford Movement)[41], il cui scopo precipuo fu quello di contrastare l’ascesa del liberalismo religioso all’interno delle università inglesi[42] e di recuperare lo spirito originario dell’Anglicanesimo attingendo all’insegnamento dei Padri e al valore della liturgia. Ciò costrinse inevitabilmente Newman e i suoi amici a confrontarsi con la Chiesa cattolica, scatenando le violente polemiche degli evangelicals, i quali giunsero ad accusare Newman e collaboratori di essere segretamente filo-papisti[43][44].
Newman e il Movimento: l’Antiquity e la Via Media (1833-1839)
san Vincenzo di Lérins, il monaco del V secolo che, con il suo Commonitorium, fu la base teologica ed apologetica della via media.
Newman, per la vivacità del suo ingegno e l’enorme cultura storica e teologica che aveva acquisito nei suoi studi ad Oxford[45], divenne ben presto la colonna portante del Movimento. Tra il 1833 e il 1841, infatti, dei 90 libelli scritti in difesa delle loro idee (i famosi Tracts for the Times), ben 30 sono stati scritti da lui[46]. I Tracts, però, non dovevano soltanto “combattere” le divergenze interne all’anglicanesimo, ma avevano anche l’obiettivo di dimostrare che quest’ultimo fosse il vero erede della Chiesa Unita, prima che si scindesse tra cattolica, ortodossa ed anglicana, con le prime due accomunate dalla successione apostolica. Sulla base di questa premessa, Newman sviluppò[47] la “via media“, in cui riconosceva alla Chiesa anglicana una posizione intermedia fra gli eccessi dottrinali del protestantesimo[48] da un lato e del cattolicesimo romano post-tridentino[49][50], che si poggiava su tre cardini: «il dogma, il sistema sacramentale e l’anti-romanismo»[51]. Per testimoniare la correttezza teologica anglicana, Newman affermava che questa si basava direttamente sull’insegnamento dei Padri e dei primi concili ecumenici, avvalorando così l’Antiquity (vale a dire il cristianesimo dei primi secoli) come fondamento basilare:
«…c’era poi il nostro argomento chiave, l’antichità; è ovvio che con quello noi potevamo solennemente condannare Roma per la sua pretesa peregrina di dominare le altre Chiese…e per di più la giudicavano rea dell’intollerabile colpa di aver fatto aggiunte estranee alla fede.» |
La base “patristica” della via media trovava luogo nell’opera del monaco Vincenzo di Lérins che, nel 431, aveva elaborato il Commonitorium, scritto con la finalità di dirimere le controversie cristologiche della sua epoca. Newman, da questo scritto, estrapolò la seguente locuzione, interpretata come base sicura per dichiarare l’ortodossia o meno di una determinata fede religiosa:
(LA) «in ipsa item catholica ecclesia magnopere curandum est ut id teneamus quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est» | (IT) «anche nella stessa chiesa cattolica ci si deve preoccupare molto che ciò che noi professiamo sia stato ritenuto tale ovunque, sempre e da tutti» |
Supportato da John Keble, da Froude (fino alla morte di questi, nel febbraio 1836), da Edward Bouverie Pusey e da nuovi simpatizzanti (tra cui il futuro rivale di Newman Henry Edward Manning), Newman lavorò indefessamente per la propagazione delle idee di rinnovamento, curando tra l’altro non soltanto l’aspetto divulgativo scientifico (oltre ai Tracts, si ricorda il Prophetical Office of the Church[52], che occupò Newman dal 1834 al 1837[53]), ma anche quello editoriale (in quanto giornalista e poi editore del giornale British Critic[54]) e continuando parallelamente con la sua attività di vicar di St. Mary. Inoltre, a partire dal 1838, Newman iniziò a pubblicare le memorie di Froude, i Froude’s Remains[55].
Dall’estate del 1839 al Tract 90: il crollo della via media
Edward Bouverie Pusey, uno dei più cari amici di Newman e futuro leader del Movimento di Oxford dopo la conversione di Newman nel 1845. Personalità eclettica e dotato di una cultura sconfinata (era professore di ebraico ad Oxford), Pusey diede vita all’anglo-cattolicesimo.
Newman, come lui stesso affermò nell’Apologia, era all’apice della popolarità agli albori del 1839[56]. Nella stagione estiva del medesimo anno[57], però, Newman cominciò a maturare una serie di gravosi dubbi sulla validità della via media da lui formulata, in seguito alla lettura della questione monofisita e al ruolo di papa Leone I avuto nel Concilio di Calcedonia. Secondo Newman, l’autorità teologico-morale di Leone presso i padri conciliari (l’inserimento del Tomus ad Flavianum ne può essere considerato un esempio) contrastava con la teologia eutichiana che, come quella del vescovo di Roma, si richiamava al depositum fidei apostolico. Inoltre, la tanto deprecata Chiesa di Roma si dimostrò ortodossa teologicamente proprio in quell’antichità che Newman aveva assunto come paradigma per dimostrare la correttezza teologico-esegetica dell’anglicanesimo, il quale pareva essere ora dalla parte dell’eresia:
«Per la prima volta, gli sorse il dubbio sulla validità dei principi dell’anglicanesimo: se gli anglicani erano ricorsi alle stesse argomentazioni dei monofisiti, e i monofisiti erano stati dichiarati eretici, anche gli anglicani, evidentemente, lo erano.» |
I due anni successivi, Newman li trascorse rimuginando continuamente su quanto apprese e sul fatto che gli anglicani erano una parte minore del cristianesimo[58]. Nel febbraio 1841[50], pubblicò uno scritto (il celebre Tract 90) in cui egli cercava di interpretare i 39 articoli della fede anglicana[59] in chiave cristiano-cattolica, operando esattamente (secondo quanto scritto da Newman sempre nell’Apologia) come i protestanti al momento della loro stesura[60]. Le violente reazioni del vescovo di Oxford e degli ambienti liberali e protestanti di Oxford spinsero Newman a lasciare definitivamente la sua amata università, rifugiandosi nel villaggio di Littlemore in un periodo di ritiro spirituale che, nel giro di pochi anni, lo porterà a convertirsi al cattolicesimo[50][61].
Il ritiro a Littlemore e la conversione al cattolicesimo (1841-1845)
Un giovane John Henry Newman, durante il periodo anglicano.
La questione del Vescovado di Gerusalemme (1841)
Oltre ad aver subito l’umiliazione del ritiro del Tract 90 e l’ostracismo dell’élite intellettuale oxfordiana, Newman dovette anche subire lo smacco nella questione della creazione di una diocesi anglo-prussiana a Gerusalemme[50][62], avvenuta per decreto parlamentare il 5 ottobre del 1841[63]. Newman, in quanto sostenitore estremo della successione apostolica, non poteva concepire tale progetto perché il luteranesimo aveva abolito, tra i sacramenti, quello dell’ordine, rendendo così la carica di vescovo un simulacro organizzativo, privato della sua carica sacramentale. Inoltre, con quest’atto (supportato da Palmerston, Lord Shaftesbury e Thomas Arnold[64]) l’anglicanesimo si sarebbe buttato “tra le braccia degli eretici”, distaccandosi definitivamente dalla Chiesa Unita[65].
Littlemore e l’Essay on the development of Christian Doctrine (1842-1845)
Deluso per quest’orientamento “protestante” della Chiesa anglicana, Newman decise, nel 1842, di ritirarsi definitivamente a Littlemore, vivendo una vita appartata, simile a quella dei Padri del deserto[66], e abbandonando ogni incarico universitario eccetto quello di fellow. Nel ritiro di Littlemore (ove esercitò le funzioni di parroco della piccola comunità e dove visse insieme ad altri anglicani, quali John Dalgairns), Newman iniziò a scrivere la sua opera Sviluppo della dottrina cristiana[67]: in questo studio sulle origini del cristianesimo, che fu pubblicato nel 1845[50], Newman cambiò radicalmente la sua concezione storico-teologica. Dopo il fallimento della via media, Newman riconobbe invece l’assoluta validità della dottrina dello sviluppo della fede. Secondo quest’ultima realtà, le “innovazioni” portate avanti nel corso dei secoli da Roma non erano eresie rispetto al passato apostolico, ma necessari adattamenti della fede originaria nelle varie epoche, purché i principi fondamentali non fossero messi in discussione[68]. Ed infatti, comparando anglicanesimo e cattolicesimo romano, Newman giunse a definire questa realtà:
«Vidi che la teoria dello sviluppo non solo spiegava certi fatti, ma rappresentava in se stessa un avvenimento filosofico importante, che imprimeva un carattere a tutto il corso del pensiero cristiano. Si poteva individuarla fin dai primi anni dell’insegnamento cattolico fino al giorno d’oggi ed essa dava a quell’insegnamento unità e carattere. Era una specie di prova che gli anglicani non potevano offrire, che Roma era in verità le antiche Antiochia, Alessandria e Costantinopoli […]» |
La cappella di Littlemore, ove Newman fu accolto nella Chiesa cattolica dal padre passionista Domenico della Madre di Dio
Davanti a questo riconoscimento, il 18 settembre 1843[66] Newman, non sentendosi più in grado di aiutare i suoi parrocchiani nelle domande relative alla fede anglicana, decise di rinunciare ai benefici sia della parrocchia di Littlemore che di St.Mary di Oxford[69], sia a ritrattare certe espressioni anti-romane usate negli anni ’30[70]: si ridusse, praticamente, allo stato laicale, vivendo come tale fino all’autunno del 1845[71].
La conversione
Il tempo che intercorse tra il 1843 e il 1845 fu estremamente doloroso per Newman, in quanto non aveva il coraggio di rivelare ai suoi amici più stretti la sua decisione di convertirsi al cattolicesimo romano[72]. Dopo due anni, nell’autunno del 1845, decise di compiere finalmente il grande passo. Il 9 ottobre Domenico della Madre di Dio, un padre passionista poi proclamato beato[73], era di passaggio da Littlemore quando all’improvviso, mentre si stava riscaldando davanti al camino, si trovò davanti Newman che gli chiese di confessarlo e, poi, di battezzarlo[74].
Periodo cattolico (1845-1890)[
La reazione degli anglicani
La notizia della conversione sconvolse e indignò la stragrande maggioranza degli anglicani: Henry Edward Manning[75], i suoi famigliari (in primis il fratello Francis William[76]) e l’opinione pubblica gli voltarono le spalle[77][78], a causa del fortissimo sentimento anticattolico radicato nella cultura britannica. Lo sdegno fu ricordato dallo stesso Newman all’incipit della sua Apologia, scrivendo che:
«Da più di vent’anni ormai si è fissata nell’animo della gente un’impressione vagamente ostile nei miei riguardi, come se la mia condotta verso la Chiesa anglicana, nel tempo in cui ne facevo parte, fosse stata incompatibile con la semplicità e la rettitudine cristiana.» |
Gli unici dei vecchi amici che compresero il suo gesto furono i vecchi amici Pusey e Keble, che però rimasero nella Chiesa anglicana[77].
L’arrivo ad Oscott e il periodo di studi a Roma (1845-1847)
Da sinistra: Ambrose St. John e John Henry Newman, in una foto degli anni ’70/’80 ca. Il loro legame d’amicizia perdurò per tutta la vita, tanto che Newman desiderò essere sepolto vicino al suo amico[79].
Newman, alla fine di ottobre del 1845, lasciò Littlemore per andare all’Oscott College, nei pressi di Birmingham, per incontrarsi con Nicholas Wiseman[80] e per ricevere dalle sue mani la cresima. Fu ospitato in questa località, insieme ad altri neoconvertiti (Albany Christie, John Walker, Frederick Oakeley, Frederick William Faber, Watts Russell, Robert Coffin ed infine il suo intimo amico Ambrose St. John)[77], trascorrendovi l’inverno. Durante questa stagione, Wiseman convinse Newman a continuare la sua attività sacerdotale all’interno della Chiesa Cattolica e, nell’aprile del 1846, fu stabilito che il neo-convertito andasse a Roma nel Collegio di Propaganda Fide, per studiare la teologia cattolica[81]. Il 1º giugno Newman e i suoi amici ricevettero gli ordini minori da Wiseman e il 23 ottobre del 1846[82], dopo cinque settimane trascorse a Milano nel tentativo di conoscere personalmente Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini[83], giunsero finalmente a Roma. Ivì conobbero personalmente l’appena eletto papa Pio IX, il quale incoraggiò l’idea di Newman e St John nell’importare in Inghilterra l’ordine degli oratoriani di San Filippo Neri. La simpatia che Newman nutriva per il “secondo apostolo di Roma” era dovuta non solo alla spiritualità umanista che Filippo Neri aveva fatto propria, ma anche perché intravide, nel modello sociale dell’Oratorio, il miglior prototipo per radicarsi sul territorio britannico[84]. I due furono ordinati sacerdoti il 30 maggio del 1847[85] e il 9 agosto, al momento della loro partenza, il papa nominò Newman superiore dell’Oratorio in terra britannica[85].
Il ritorno in Inghilterra e la diffusione degli Oratoriani (1847-1850)[modifica | modifica wikitesto]
Ritornato in Inghilterra, Newman fondò il primo oratorio nella località di Edgbaston, presso Birmingham(attualmente parte integrante della città), nel 1849[86]. Newman e la comunità oratoriana fecero sentire immediatamente la loro presenza a Birmingham, città estremamente problematica a causa dei disagi sociali seguiti alla rivoluzione industriale. Newman e i suoi confratelli iniziarono con grande ardore la loro presenza. Per esempio, lo stesso Newman e Ambrose St John sfidarono, nel 1849, l’epidemia di colera a Bilston nello Staffordshire[67][87], per recare soccorso alle popolazioni colpite dal morbo, suscitando stupore per il coraggio dimostrato. Sempre nel 1850, a Londra, Newman fondò il secondo oratorio inglese, affidandolo a Frederick William Faber[67]. Importante fu l’influenza della spiritualità dell’Oratorio nei suoi scritti, come mostra l’opera Dolori mentali di nostro Signore durante la sua Passione, opera che rimanda a quella simile scritta da santa Camilla da Varano, clarissa le cui opere erano lette e meditate non solo da Filippo Neri, ma anche dai membri dell’Oratorio[88].
La restaurazione ecclesiastica del 1850 |
L’anno 1850 segnò un avvenimento importante per la Chiesa Cattolica in Inghilterra. Il 29 settembre del 1850 Pio IX, visto il crescente aumento di cattolici in Inghilterra, vi ristabiliva la gerarchia episcopale, ponendo Wiseman come Primate e nominandolo, oltre che cardinale, primo arcivescovo di Westminster[89]. L’atto di papa Pio IX fu però visto, da parte dell’opinione pubblica anglicana conservatrice (ancora scossa dall’anglocattolicesimo del Movimento di Oxford) come una non accettabile concessione al Pope of Rome, scatenando violente reazioni contro la Papal aggression[90]. Da questa reazione, si può comprendere il disagio che Newman provava nella vita quotidiana, in quanto considerato apostata e alleato del papa di Roma, visto come l’Anticristo[91]. |
I primi attriti con cattolici e anglicani
Gli old catholics
I neoconvertiti, però, furono guardati con sospetto dagli altri gruppi religiosi inglesi. Innanzitutto, i “nuovi cattolici” provenienti dall’anglicanesimo erano particolarmente avversati dagli old catholics, ovvero quei cattolici inglesi che, per generazioni, avevano vissuto in condizione di semiclandestinità[92]. Questi ultimi, infatti, non condividevano l’ideale di un cattolicesimo attivo nella società[93], come invece lo intendeva l’oratoriano Newman, desideroso di formare i fedeli e di renderli “coscienti” della loro fede.
I cattolici
Paradossalmente, Newman entrò in contrasto anche con chi l’aveva supportato nella conversione (Wiseman) e addirittura con alcuni neoconvertiti provenienti dall’anglicanesimo (Faber e, in una fase successiva, Manning). Il problema consisteva nell’approccio pastorale usato da Newman, il quale appunto intendeva formare i laici perché avessero anch’essi un ruolo attivo nella vita della Chiesa[94]. Al contrario, Wiseman[95] e il vescovo di Birmingham, William Benjamin Ullathorne, erano fermi sostenitori delle idee clericali[96]. In seguito alle posizioni manifestate da Newman in una serie di conferenze sul cattolicesimo inglese del 1850[97], Wiseman e Ullathorne cominciarono a prendere le distanze da Newman. Più tardi, monsignor George Talbot, cameriere pontificio di Pio IX, dichiarò che: ” Il dr. Newman è l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”[98], proprio per la volontà dell’oratoriano di coinvolgere il laicato nella vita della Chiesa.
Gli anglicani e il caso Achilli (1850-53)
Come già ricordato prima, la maggior parte degli anglicani si sentì quasi tradita da Newman per la sua scelta di cambiare confessione religiosa. Quest’ostilità premeditata si fece sentire in occasione del cosiddetto “affare Achilli”, in cui Newman attaccò pubblicamente l’ex frate domenicano Giacinto Achilli, fautore di una propaganda anticattolica. Questi era già stato attaccato da Wiseman sulle colonne della Dublin Review del luglio 1850[99], ricordandone il passato poco edificante, e Newman seguì la scia tracciata dal neo-cardinale, credendo di ricevere dalle sue stesse mani le prove delle accuse[99]. Wiseman, però, rispose che le aveva perse[100] e, nonostante le prove contro Achilli fossero evidenti[101], i giudici anglicani della corte ne approfittarono per condannare Newman per assenza di prove (31 gennaio 1853)[99].
The Idea of University: l’esperienza universitaria irlandese (1851-1858)
La casa ove dimorò Newman durante il suo soggiorno dublinese, in St. Stephens Green.
Le idee di Newman riguardanti il ruolo del laicato nella vita della Chiesa si manifestarono pienamente nella breve, ma intensa esperienza irlandese. Nel 1851, su invito dell’arcivescovo di Dublino Paul Cullen, l’oratoriano inglese fu scelto come rettore della neonata Università cattolica di Dublino[102], attività che esercitò effettivamente dal 1854(anno dell’apertura dei corsi) al 1858[103]. Il metodo educativo di Newman, che verrà poi riassunto nel saggio The idea of University (realizzato sulla base delle relazioni tenute i lunedì di maggio e giugno 1852[102]), si proponeva, essenzialmente, di formare gli studenti sia attraverso un’educazione che mirasse alla valorizzazione delle capacità peculiari di ciascuno (ammettendo la necessità anche di una scuola professionale[102]), sia attraverso una salda educazione cristiana, rendendo complementari le due sfere[104][105]:
«Ecco dunque, a quel che io penso, l’intento della Santa Sede e della Chiesa Cattolica nel fondare Università: ricongiungere cose che in principio furono congiunte insieme da Dio, e dall’uomo sono state staccate […] Desidero che gli stessi luoghi e le stesse persone siano insieme oracoli di filosofia e santuari di devozione […] Non mi soddisfa che la religione sia di qua e la scienza sia di là, e che i giovani conversino tutto il giorno con la scienza, e alloggino con la religione la sera […] voglio che uno stesso tetto contenga insieme la disciplina intellettuale e quella morale» |
(John Henry Newman, Discorso nell’Università Cattolica, in J.H.Newman, Il cuore del mondo – Antologia degli scritti, cit., p. 167) |
Il tutto, per formare una nuova classe dirigente colta (o perlomeno preparata nel suo settore), capace di essere nel contempo consapevole della fede praticata. La metodologia concreta di questo proposito consisteva nell’adottare il sistema usato nell’Università di Oxford: creare forti legami tra gli studenti all’interno di istituzioni simili ai College; di instaurare un rapporto diretto tra tutors e studenti[103]; di pubblicare un giornale universitario che limitasse ulteriormente le barriere comunicative tra corpo docenti e studenti[103]. Si provvide, inoltre, a fornire l’Università non soltanto di docenti legati alla tradizione culturale umanistica, ma anche scientifica, come l’istituzione della facoltà di medicina[106]. Il modello universitario di Newman, però, incontrò subito degli ostacoli, in primis dallo stesso arcivescovo Cullen che l’aveva chiamato a dirigere l’università cattolica, in quanto riteneva “scandalosa” la partecipazione dei laici nella gestione di un’università fondata per volontà dei vescovi[107]. Di fronte all’ostilità della gerarchia episcopale irlandese, Newman lasciò il suo incarico di rettore nel 1858[102], ritornandosene ad Edgbaston. Una piccola rivincita la ebbe proprio nella sede dell’oratorio, con la fondazione della The Oratory School (1º maggio 1859[108]), scuola superiore finalizzata all’educazione dei giovani cattolici inglesi e basata sui principi pedagogici espressi in Irlanda[108].
Il riscatto di Newman: l’Apologia Pro Vita Sua (1864)
Gli anni seguenti videro un progressivo ostracismo nei confronti di Newman da parte dei cattolici. Newman poté riabilitarsi agli occhi sia degli anglicani che dei cattolici in occasione della diatriba che ebbe con Charles Kingsley (1819-1875)[109], un intellettuale anglicano legato agli ambienti degli evangelicals già ostile alle proposte “papiste” di Pusey, nel frattempo divenuto il leder del Movimento di Oxford dopo la conversione di Newman. Kinglsely, nel 1864 scrisse sulle pagine del giornale Macmillan’s Magazine un articolo ingiurioso nei confronti dei cattolici, e in particolare di Newman, sostenendo che[109]:
(EN) «truth, for its own sake had never been a virtue with the Roman clergy . . . [and] Father Newman informs us that it need not, and on the whole ought not to be; that cunning is the weapon which Heaven has given to the saints wherewith to withstand the brute male force of the wicked world which marries and is given in marriage,» | (IT) «la verità, per il suo stesso motivo, non è mai stata una virtù del clero di Roma…[e] Padre Newman ci dimostra che non sia necessaria, e che in generale non lo dovrebbe essere; che l’astuzia è l’arma che il Paradiso ha dato ai santi con cui resistere alla forza bruta di un mondo malvagio che la sposa e le è data in sposa”.» |
(Charles Kingsley) |
George Frederic Watts, Ritratto di Henry Edward Manning (1808-1892), olio su tela, 1882, National Portrait Gallery, Londra. Nominato successore di Wiseman nel 1865 come arcivescovo di Westminster, Manning si oppose alle aperture in materia pastorale di Newman, sabotandone i progetti.
Newman, davanti a queste dichiarazioni, ne fece un caso di coscienza, in quanto si mettevano in dubbio non soltanto le buone intenzioni dei cattolici, ma anche la sua travagliata storia spirituale[110]. Appellandosi direttamente all’opinione pubblica britannica[111], Newman espose, con lucidità e chiarezza, “la storia della [sua] anima”[112], dall’infanzia fino al 1845. Quando il libro uscì nel 1864, gli anglicani si sorpresero di come Newman non avesse mai attaccato la loro confessione religiosa, riconoscendone anzi il merito di averlo avvicinato a Dio attraverso la sua testimonianza[113]. Dalle pagine, non traspare mai una sola parola di risentimento verso coloro che gli hanno mostrato rancore, dimostrando anzi sempre parole d’affetto[114]. Il fair play e l’onestà intellettuale riabilitarono completamente Newman agli occhi sia degli anglicani (per le parole di stima e il rispetto dimostrato), sia della maggior parte dei cattolici, per le prese di posizione a favore del cattolicesimo[115].
Il cambio della guardia: da Wiseman a Manning
Mentre Newman era al culmine della sua popolarità, agli inizi del 1865 venne a mancare il cardinale Wiseman (15 febbraio). Pio IX decise di nominare, come suo successore, Henry Edward Manning(1808-1892)[116], già vecchio amico di Newman dai tempi di Oxford e convertitosi poi al cattolicesimo nel 1851. Rispetto a Newman, Manning aveva una visione autocratica, statica e clericale della Chiesa, posizione che lo opporrà più volte, nel corso della sua vita, al vecchio amico di gioventù. Difatti, il neoarcivescovo di Westminster espresse opinioni poco incoraggianti sullo stile usato nell’Apologia[117], manifestando così la propria opposizione alla visione della Chiesa di Newman.
Il Concilio Vaticano I e La lettera al Duca di Norfolk (1870-1875)
Nel 1869, papa Pio IX aprì ufficialmente un nuovo concilio ecumenico perché i padri conciliari, una volta riunitesi, approvassero come dogma l’infallibilità papale. Immediatamente, i cattolici inglesi si spaccarono in due fronti: gli ultramontanisti, capeggiati dal cardinal Manning e dal suo entourage[118], sostenevano che l’infallibilità non si dovesse limitare soltanto alle verità di fede, ma che dovesse riguardare anche la politica e la gestione della società[119]. Al contrario, Newman si mantenne su una linea molto più moderata, distanziandosi sia dal fanatismo di Manning, sia dal rifiuto assoluto del teologo tedesco Ignaz von Döllinger di approvare come dogma l’infallibilità[120]. Per Newman, il concetto di infallibilità papale sussiste non in quanto legata all’istituzione della carica in sé, ma in quanto il Papa è il custode del depositum fidei. Da questa considerazione, emerge chiaramente il pensiero di Newman riguardo a questo dogma, e cioè che:
«L’autorità visibile nella Chiesa si trova in Pietro, distinto dagli altri apostoli: è lui la roccia su cui Cristo ha edificato la sua Chiesa. Ora il Papa, come vescovo di Roma, è testimone della tradizione universale della Chiesa universale, perciò il suo servizio come Pastore e Dottore Universale è infallibile in virtù del suo essere il successore di Pietro, quando nella proclamazione dottrinale impegni formalmente la sua autorità di Apostolo e maestro “ex cathedra”. Il potere dell’infallibilità è in relazione al “depositum fidei”, e consta di materia di fede e morale o di realtà che abbiano una necessaria connessione la fede. Il papa, ricorda Newman, non si servirà mai di questo potere per insegnare realtà palesemente contrarie alla Rivelazione…» |
(L’unita nella Chiesa universale Il ministero del Papa, n°116, marzo/aprile 1991, in Communio, pp. 81-82.) |
William Ewart Gladstone
Al Concilio Vaticano, oltre a Manning che vi poteva partecipare di diritto in qualità di primate della Chiesa cattolica in Inghilterra, vi si doveva recare anche Newman in qualità di consulente teologico, su richiesta di Pio IX, ma non vi partecipò per il suo carattere riservato e per l’atmosfera concitatata delle sessione conciliare[121]. Quando il documento concernente la questione dell’infallibilità papale, la costituzione dogmatica Pastor Aeternus, fu approvato il 18 luglio del 1870, i padri conciliari adottarono la posizione dei “moderati” (e quindi di Newman), rigettando l’ultramontanismo e lo scetticismo di Döllinger.
Newman ebbe modo di esporre apertamente la sua posizione riguardo al dogma conciliare allorquando lo statista William Ewart Gladstone, suo vecchio amico dai tempi di Oxford[122], dichiarò, nei suoi Vatican decrees del 5 novembre 1874, che i cattolici inglesi non potevano essere nel contempo buoni sudditi di Sua Maestà, in quanto il dogma dell’infallibilità papale li poneva direttamente sotto l’obbedienza del Papa, annullando di conseguenza la loro libertà di Coscienza[123]. Sollecitato da Henry Fitzalan-Howard, duca di Norfolk, il leader politico dei cattolici inglesi, Newman rispose dedicando al duca una lettera in cui l’anziano oratoriano contrastava le asserzioni di Gladstone, ribadendo la funzione puramente “spirituale” dell’infallibilità pontificia e il valore del primato della Coscienza come perno su cui edificare concretamente le opinioni degli uomini[124], dichiarando:
«Il Signor Gladstone ci chiede se la nostra vita politica e civile non sia in balia del Papa: ogni atto, egli afferma, di almeno tre quarti della nostra giornata è soggetto al suo controllo. No! Non tutti i nostri atti, ma alcuni nostri atti: qui sta tutta la differenza!» |
(Newman, Lettera al duca di Norfolk, p. 197) |
Foto scattata in occasione del soggiorno a Roma di Newman, in occasione della sua elevazione alla dignità cardinalizia.
Il cardinalato (1879)
(LA) «Cor ad Cor loquitur» | (IT) «Il Cuore parla al Cuore» |
(John Henry Newman, motto cardinalizio) |
Nel 1879, all’età di settantotto anni, il nuovo pontefice Leone XIII lo creò cardinale diacono titolare di San Giorgio in Velabro (anche a dispetto dell’opposizione dell’arcivescovo di Westminster cardinale Henry Edward Manning[125]), senza consacrarlo vescovo e senza che egli si trasferisse neanche a Roma come “cardinale di curia”. Il riservato oratoriano, nonostante la popolarità presso il mondo cattolico ed anglicano, desiderava rimanere nella quiete del suo oratorio di Edgbaston, conducendo una vita appartata e dedita alla preghiera, allo studio e alla pastorale[126]. La nomina di Newman fu fortemente voluta dal Papa, il quale aveva una particolare ammirazione per il prelato inglese[127] e che desiderava, così, iniziare una politica di riconciliazione con l’opinione pubblica inglese[125]. Nel discorso pronunciato da Newman in occasione della sua nomina a cardinale, infatti, spiegò che tale decisione del papa era motivata dal «riconoscimento del mio zelo e del servizio che avevo reso per tanti anni alla Chiesa Cattolica» e dal fatto che «i cattolici inglesi e perfino l’Inghilterra protestante si sarebbero rallegrati del fatto che io ricevessi un segno del suo favore». Nello stesso discorso, Newman condannò a chiare lettere il relativismo e il liberalismo in campo religioso, definiti una «grande sciagura», «un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra»[128].
Gli ultimi anni e i riconoscimenti pubblici (1879-1890)
Continuò a vivere in Inghilterra, pubblicando articoli fino al 1885. Gli ultimi anni del cardinale trascorsero da un lato tra i pubblici riconoscimenti, sia dei cattolici che degli anglicani, nei confronti di quest’uomo a lungo tanto incompreso. Addirittura, l’Università di Oxford, che Newman non vedeva da più di trent’anni, lo ammise come fellow onorario[125]. Dall’altro, Newman visse vari lutti che ne rattristarono la vecchiaia. Già nel 1875 era morto Ambrose St John, l’amico più caro che Newman ebbe in vita sua[129]. Negli anni ’80, si spensero prima Friedrick Rogers e, nel 1889, il vescovo Ullathorne[129].
Newman nel 1887, tre anni prima della morte.
La morte e i funerali
Nel 1889, la salute di Newman, quasi novantenne, declinò celermente. Celebrò l’ultima messa nel Natale del 1889 e, dopo una lunga agonia, morì l’11 agosto del 1890, nell’Oratorio di Edgbaston.[130]
I funerali, che si celebrarono il 20 agosto successivo, furono presieduti dal cardinale Manning, l’antico avversario di Newman col quale si era riconciliato nel 1888[130]. Durante l’omelia, Manning volle riconoscere la grandezza di fede di Newman, affermando:
(EN) «We have lost our greatest witness for the Faith, and we are all poorer and lower by the loss.» | (IT) «Abbiamo perso il nostro più grande testimone della fede, e tutti noi siamo più poveri e più piccoli per la perdita.» |
Newman fu sepolto nel piccolo cimitero degli Oratoriani di Rednal,[131] nella stessa tomba di Ambrose St John[79].
Quando, nel 2008, le autorità cattoliche decisero di esumare la salma del cardinale, non venne ritrovato più nulla del suo corpo. Varie ipotesi sono state avanzate per spiegare questo fatto: da un processo chimico che avrebbe dissolto anche le ossa, ad un trafugamento voluto per impedire di separare i corpi di Newman e St John, che mantennero, per tutta la loro vita, un legame intenso e totalizzante[132]